Tempo
Le interessanti considerazioni svolte dal Rav Scialom Bahbout nella newsletter dello scorso 6 gennaio, dedicate al significato del capodanno, sollecitano anche una più generale riflessione sul senso e sul valore del tempo, del suo incessante scorrere. Tema, com’è noto, tipicamente ebraico, tanto che Heschel definì gli ebrei “costruttori del tempo” (come gli egiziani lo sarebbero stati dello spazio, i romani dello stato, e i cristiani del cielo). Cos’altro è, l’accanita fedeltà del popolo ebraico alla propria radice, la tenace custodia della memoria e la costante tensione verso il futuro, se non una sfida all’eterno fluire del tempo, al suo perpetuo inghiottire nell’oblio ogni cosa, ogni esistenza, ogni civiltà? La parola biblica tenta di ergersi a scoglio nel fiume dei millenni, esprime l’umano desiderio di cercare, comunque, un punto fermo. Eppure, il pessimismo sullo scorrere del tempo non è, a tale parola, estraneo, come ben rammentano le sconsolate parole del Qohelet: “Passa una generazione e ne succede un’altra, e la terra esiste sempre. Il sole sorge e tramonta, e poi torna al suo posto, da dove si leva di nuovo… Tutti i fiumi sboccano nel mare, e il mare non trabocca: là da dove i fiumi scaturiscono, essi ritornano, per poi rifluire nuovamente… Cosa è ciò che è stato? Ciò che sarà. Cosa è ciò che accaduto? Ciò che accadrà. Non vi è nulla di nuovo sotto il sole”.
Se il passare del tempo, col suo inesorabile portare via ogni cosa, induce, indubbiamente, alla tristezza, esso porta anche, però, una forma di consolazione, una sorta di ultima, estrema risorsa. Se tutto passa, passa anche il dolore. Nessuna sofferenza è eterna. E quante volte, di fronte a un problema apparentemente insolubile, ci si aggrappa, più o meno sensatamente, alla speranza, che, col tempo, esso possa trovare una qualche soluzione, grazie al sorgere di nuove circostanze più propizie, di cui, al momento, non si vede traccia, ma che potrebbero, comunque presentarsi l’indomani. Tale sentimento, comprensibilmente, emerge soprattutto di fronte a situazioni negative, di lunga durata, per le quali, a torto o a ragione, abbiamo la convinzione di non poter fare nulla, o quasi, per modificarle. È un pensiero che affiora molte volte, in particolare, riguardo alla spinosa questione mediorientale, alla penosa mancanza – anno dopo anno, decennio dopo decennio – di prospettive – per quanto remote, esili, ipotetiche – di soluzione.
Deve passare una generazione, si dice, i figli dei nemici di oggi non saranno così maldisposti come i padri, se non altro per stanchezza. La diffusione del benessere, della cultura, della comunicazione tra gli individui e i popoli porterà desiderio di conoscenza, di scambio, di amicizia. Ma capita, spesso, che i figli siano peggiori dei padri, che gli uomini non si stanchino mai di odiare. Che il benessere non cresca o, comunque, non a beneficio di molti. Che la cultura ceda al fanatismo, che la nascita di nuove minoranze metta paura alle maggioranze, alimentando sentimenti di chiusura, esclusione e disprezzo.
Disse Benedetto Croce che la storia tende al meglio, anche se non al bene. Ma si potrebbe anche, legittimamente, pensare l’esatto contrario, che tenda al peggio, al male. La Shoah è alla fine di millenni di civiltà, non all’inizio. Basterebbe questa semplice, terribile constatazione per sbriciolare per sempre qualsiasi illusione di una ‘naturale’ vocazione del genere umano al progresso, all’elevazione materiale e spirituale.
Cosa riserva il tempo di domani? Qualche spiraglio di luce, o nuovi lutti, nuove tragedie? Difficilmente la ragione può indurre all’ottimismo. Quindi, forse, meglio non pensarci e, invece di pensare, agire, seguendo la saggia Massima dei Padri (1.15): “parla poco, fai molto”.
Francesco Lucrezi, storico