Se lo fanno tutti, io no
Giunta alla dodicesima edizione, il Giorno della Memoria sembra ancora godere di un ampio sostegno e di un crescente apprezzamento, negli ambienti più disparati. Sappiamo bene, però, come da più parti siano stati avanzati giusti spunti di riflessione e di prudenza di fronte ai rischi presentati dalla tralaticia reiterazione dell’iniziativa: rischi che si chiamano assuefazione, retorica, noia, rigetto, ‘monumentalizzazione’. Diventerà, la Giornata della Memoria, qualcosa di simile alle solenni statue di Garibaldi e di Vittorio Emanale II, che adornano le nostre piazze? Grandi, solenni, familiari, ma completamente svuotate del loro significato originario? Una sorta di nota ricorrenza del calendario, come la Befana e Ferragosto?
Nessuno, ovviamente, se lo augura. Ma tutti sanno, d’altronde, che la natura umana respinge una commozione eccessivamente protratta nel tempo. Si può piangere un giorno, due, ma alla fine, come si dice, non c’è lacrima che non si asciughi. Bisognerebbe forse prevenire tale ripiegamento, interrompendo le celebrazioni prima che esse vengano disertate dalla gente o, peggio ancora, suscitino moti di ripulsa e di insofferenza?
A mio avviso, bisogna sempre tenere ben presente che il Giorno della Memoria svolge almeno due funzioni distinte, da non confondere l’una con l’altra. Da una parte, esso rappresenta una forma di partecipazione collettiva a un immenso lutto, un momento di raccoglimento e un tributo di solidarietà verso le vittime della barbarie, il cui sacrificio vuole essere ricordato dalle generazioni successive. Da questo punto di vista, il rischio che esso diventi un gesto stereotipato, privo di effettiva partecipazione emotiva, è senz’altro presente. Ma questo rischio esiste sempre, per qualsiasi iniziativa analoga. Forse che ai funerali tutti piangono veramente? E cosa pensano davvero, nel loro animo, gli atleti, i professori, i membri dei club, delle assemblee, delle palestre, quando vengono invitati a osservare, tutti insieme, “un minuto di silenzio” in memoria di qualche scomparso che si vuole onorare? In genere, naturalmente, la decisione di se e come commemorare qualcuno spetta ai parenti, o agli amici, colleghi e sodali. Chi è titolare, in questo caso, della memoria dei sei milioni? Il popolo ebraico, o l’umanità intera?
D’altra parte, è evidente il 27 gennaio non rappresenta soltanto una sorta di ‘trigesimo’, di commemorazione funebre, ma anche una straordinaria, fondamentale occasione di insegnamento per le nuove generazioni, le quali sono chiamate ad apprendere e a riflettere sull’evento più tragico, più angoscioso, più assurdo della storia dell’umanità. A cosa serve conoscere le guerre puniche, la scoperta dell’America e il Risorgimento, se non si conosce la Shoah? A che serve studiare l’evoluzione della civiltà umana, se non si studia il suo terrificante epilogo, consumatosi nel cuore della nobile, civilissima, cristiana Europa? Il giorno che si smettesse di studiare la Shoah, a mio avviso, converrebbe anche, per coerenza, smettere di studiare la storia “tout court”; anzi, smettere di andare a scuola, di imparare a leggere e scrivere. E si può studiare, la Shoah, solo sui banchi di scuola? Non è forse utile, utilissimo, finché sarà possibile, ascoltare la viva voce dei protagonisti, dei superstiti?
Da questo punto di vista, il Giorno della Memoria non solleva dubbi. È un’occasione unica, fondamentale, assolutamente necessaria per la maturazione dei giovani. Ed è motivo di grande conforto sapere che la domanda di conoscenza, da parte dei ragazzi, non tende affatto a scemare, ma sembra anzi crescere imperiosa, imperativa, di anno in anno. Vogliono sapere, vogliono capire. La questione di come rispondere a tale domanda, ovviamente, non è semplice. Personalmente, ho maturato la solida convinzione che i giovani amano ricevere elementi di conoscenza, ma sono istintivamente diffidenti nei confronti di chi sembri volere loro imporre una morale già confezionata. Non amano, come si dice, “le prediche”. Quando ci si rivolge loro, perciò, non è tanto opportuno dire “non siate razzisti”, ma, piuttosto, “pensate con la vostra testa”, “capite cosa sia il razzismo”. Se, dopo averlo capito, sceglierete di esserlo, sarà una vostra scelta consapevole. Altrimenti, rifuggite dalla “logica del branco”, del “lo fanno tutti”. “Etsi omnes, ego non”: se anche lo fanno tutti, io no.
Francesco Lucrezi, storico