Giorno della Memoria – Tempo di bilanci

Trarre un consuntivo delle avvenute celebrazioni del Giorno della Memoria è senz’altro difficile. Complessivamente, sembra di poter dire che la partecipazione generale all’evento, in tutta Italia, è stata altamente diffusa e, almeno apparentemente, sinceramente sentita, da parte della cittadinanza, delle Istituzioni, dei docenti, e, soprattutto, di tantissimi giovani, che, con la loro attiva presenza, hanno rappresentato un forte segnale di fiducia nel il futuro. Le note sgradevoli, ovviamente, non sono mancate (interpretazioni della Shoah in senso riduttivo, banalizzante, fuorviante, se non peggio), ma, a quel che si può constatare, si è trattato di fenomeni alquanto minoritari, non in grado di alterare il chiaro significato corale delle celebrazioni.
Si è riproposta, naturalmente, la delicata questione del ‘come’ ricordare, della possibilità data alla parola umana di rendere testimonianza, di fronte a un evento che, per la sua assoluta radicalità, si pone al di là di ogni possibilità di racconto, di espressione, di rappresentazione. E particolarmente significativo, da questo punto di vista, mi pare essere stato l’apporto dato dalla musica, che, in diverse occasioni e località, è stata utilizzata per sollecitare, fra i presenti alle celebrazioni, un momento di intimo raccoglimento.
Della perdurante attualità della famosa frase di Teodoro Adorno, secondo cui, con la Shoah, sarebbe venuta meno la possibilità di fare poesia, già si è detto. La parola, certamente, continuerà a essere pronunciata. Ma sarà sempre accompagnata, d’ora innanzi, da una parola muta, dalla “non parola” dei sommersi, che siamo chiamati a ricordare e a commemorare. Nel loro silenzio, col nostro silenzio. Può la musica assolvere a questo compito? Marguerite Yourcenar, nel suo Alexis, scrive che il compito della musica sarebbe appunto quello di esprimere il mistero del silenzio. E André Neher spiega che il silenzio non è un vuoto, una mancanza, ma può essere uno spazio denso di suoni, di voci. Le voci degli scomparsi, certo. Ma anche la voce di chi, vissuto dopo, non si vuole arrendere al male, all’assurdo, e vuole continuare a testimoniare, nonostante tutto, la propria fiducia nella vita. Esprimere questa fede, questa speranza, con le parole, non è facile. Noi adulti, almeno, non ci riusciamo. Ci si può provare, forse, con la musica, da sempre chiamata, come spiega Vladimir Jankélevitch, a esprimere l’ineffabile. E, forse, i ragazzi, più degli adulti, possono cimentarsi con questo compito impossibile e doveroso.
Particolarmente commoventi, da questo punto di vista, due manifestazioni svolte in provincia di Napoli, nelle quali la testimonianza della memoria è stata affidata alle note eseguite, con grande maestria, da alcuni giovanissimi esecutori, che hanno commosso i numerosi ascoltatori, strappando loro anche, letteralmente, delle lacrime. La prima si è svolta il 25 gennaio presso la Sala Teatro del Liceo Musicale Margherita di Savoia di Napoli, dove, prima e dopo una conferenza tenuta dallo scrittore israeliano Nir Baram, un gruppo di allievi del Liceo e di alcune scuole medie, di età compresa tra i 12 e i 15 anni, guidati dalla violinista Angela Amato Yael, ha eseguito una serie di brani di tradizione ebraica. La seconda ha avuto luogo il 27 gennaio, presso il Liceo Antonio Gramsci di Miliscola, Bacoli, dove a tenere una lezione sulla memoria non è stato chiamato un austero professore, ma il violinista ebreo quindicenne, italo-croato, David Glavaš, che, dopo avere parlato della tragedia del suo popolo, ha eseguito, col consueto talento, alcuni brani musicali.
I giovani, si sa, tendono spesso a respingere, o a guardare con diffidenza, le lezioni dei ‘grandi’. Come scrisse Shakespeare, corrono dagli innamorati con la stessa velocità con cui fuggono dai libri. Ma, se diffidano delle parole degli adulti, ascoltano con attenzione quelle dei loro coetanei. Specie quando, in forma di note musicali, toccano direttamente le corde del loro cuore. Credo che questi giovani musicisti abbiano dato un tributo alla memoria e un messaggio di speranza superiori a quelli che sarebbero venuti da cento conferenze accademiche. Di ciò, non possiamo che ringraziali, sperando che ci lascino almeno un po’ del loro coraggio e del loro ottimismo.

Francesco Lucrezi, storico