parole…
Az yashir Moshè – Allora cantò Moshè…” (Shemot 15:1).“Disse Moshè: con la parola “Az” ho peccato dicendo (Shemot 5:23) “umeAz bati el Par’ò ledabber bishmekhà herà la’am hazè vehazel lo hizalta et ‘ammekhà – da quando sono andato dal Faraone a parlare a Tuo Nome, ciò ha causato “male” a questo popolo e Tu non arrecasti salvezza al Tuo popolo” e con la stessa Ti loderò (Midrash Shemot Rabbà 23:3). All’inizio della sua missione Moshè disse che il Signore causò del male, provocando un aumento delle sofferenze, a quel popolo che avrebbe dovuto liberare. Per questo, il Signore gli fece conoscere il Suo Nome, il Tetragramma, simbolo della misericordia divina, che ai Patriarchi non fece conoscere. Questa riposta di D-o, però, è stata un rimprovero per Moshè perché sottolinea la colpa commessa da Moshè con quella frase: a differenza dei Patriarchi, la lontananza della realizzazione della promessa divina, provocò in lui una lamentela verso il Signore e l’espressione di un dubbio riguardo l’attributo della misericordia divina. La cantica del mare, poesia simbolo della riconoscenza per la liberazione ricevuta, è iniziata da Moshè con la stessa parola con la quale – all’inizio – espresse una lamentela che non avrebbe dovuto fare. Moshè ci insegna che mai dobbiamo dubitare che Kol ma de’avid Rachamanà, letav ‘avid – tutto ciò che D-o fa, è solo per il “bene”.
Adolfo Locci, rabbino capo di Padova