Davar acher – Sionismo

E’ bene che si sia ricominciato a discutere di sionismo nel mondo ebraico italiano, com’è testimoniato da un paio di iniziative tenute a Roma nella scorsa settimana. Da sempre infatti vi è un certo grado di ambiguità o confusione intorno al termine e al movimento reale che ne è definito. Vale la pena di ricordare qui alcuni dati basilari. Il sionismo non è genericamente amore del popolo ebraico, o volontà di tutelare i suoi valori, ma molto più precisamente il movimento che ha inteso risolvere i suoi problemi, e innanzitutto il suo stato millenario di subordinazione, persecuzione, insicurezza fisica e morale, per mezzo della costruzione di uno Stato, nel territorio della patria storica dell’ebraismo, Eretz Israel. Essendo un movimento laico, il sionismo incontrò l’opposizione di buona parte del mondo religioso più tradizionale, che pensava l’esilio come una punizione religiosa che avrebbe potuta essere terminata solo da un atto divino esplicito. Essendo un movimento nazionale, che considerava l’ebraismo come popolo e non solo come religione, il sionismo fu anche combattuto da tutte le èlites dell’emancipazione, che volevano descriversi solo come una confessione religiosa e aborrivano ogni sospetto di doppia lealtà: ciò accadde negli Stati Uniti, in Germania e anche nella maggioranza dell’ebraismo italiano. Per la stessa ragione – essere un movimento nazionale e pensare alla liberazione dell’ebraismo come un popolo particolare – al sionismo si contrappose ogni forma di movimento socialista, dai bolscevichi ai bundisti (i socialisti yiddish) ai socialdemocratici occidentali, spesso con sovra-toni antisemiti. Dove il comunismo andò al potere, poi, il sospetto di sionismo fu motivo di persecuzione antiebraica più o meno generalizzata.
Anche per chi si sentiva dentro il movimento sionista, il suo obiettivo semplice e diretto definito da Herzl – la costruzione di uno Stato ebraico nel territorio tradizionale di Eretz Israel – fu oggetto di cautele, di dilazioni e di riserve da parte di molti, dai sionisti culturali di Achad Haam, che proponevano di costruire prima un nuovo uomo ebreo con una nuova cultura, al laburismo integrale, che l’uomo nuovo lo voleva costruire col lavoro nei campi e voleva il socialismo prima dello Stato, ai pacifisti alla Buber che pensavano necessario l’accordo con gli arabi a costo di fermare l’immigrazione (anche durante al Shoah), prima di provare a costruire lo stato. Per fortuna dell’ebraismo non solo i nemici esterni ma anche i temporizzatori interni furono sconfitti dall’azione di Ben Gurion che riuscì a preparare la maggioranza del movimento sionista e a cogliere il momento unico per la costituzione dello Stato. Se Israele esiste oggi è merito di questo coraggio.
Oggi i nemici esterni del sionismo nel mondo ebraico sono diminuiti: i più estremisti dei religiosi tradizionali (una buona fetta degli charedim), alcuni comunisti/pacifisti estremi, con una fetta minoritaria ma non indifferente di mondo accademico e intellettuale che parla della costruzione dello Stato come “peccato originale” di Israele. Il successo del sionismo è misurato dal fatto che costoro preferiscano non chiamarsi anti-sionisti ma post-sionisti, non contro ma dopo. C’è però in Israele e nella diaspora uno schieramento di quelli che io chiamo ironicamente “diversamente sionisti”, quella sinistra ebraica che ha abbandonato la strada di Ben Gurion e Golda Meir, dimostra una fiducia incrollabile nella volontà di pace degli arabi nonostante decenni di sanguinose delusioni, crede che “la pace” sia un obiettivo indipendente o superiore alla sicurezza, diffida soprattutto e odia istericamente i “coloni”, cioè coloro che non accettano di cedere agli arabi senza condizione la proprietà delle terre dissodate e dei luoghi biblici dell’ebraismo, cerca di delegittimare la maggioranza elettorale che rifiuta la loro strada e i politici che essa esprime, appellandosi all’appoggio politico e magari al denaro straniero. Anche i “diversamente sionisti” talvolta ammettono di essere “postsionisti”, ma spesso rivendicano quello che chiamano “tough love”, amore “tosto” o “severo” per Israele. Tutto il suo quadro strategico, l’idea che gli arabi cerchino la pace con Israele e che sia responsabilità di Israele fare le “concessioni” necessarie per questa volontà di pace, appare irrealistico e pericoloso a uno sguardo spassionato.
Come per Herzl, come per Ben Gurion, essere sionisti oggi vuol dire guardare con grande realismo ai rapporti di forza, non farsi illusioni sulla buona volontà altrui, sapere che uno Stato ebraico deve difenderci da nemici storici e odi millenari; ma anche essere sufficientemente utopisti per continuare a credere alla grande speranza sionista, alla necessità di uno Stato ebraico, per non abbattersi di fronte alla guerra della propaganda e della politica internazionale, come non ci si è lasciati abbattere dalla guerra delle armi e del terrore.

Ugo Volli