L’importanza di chiamarsi Hakoah

Ron Glickman coltivava da alcuni anni il sogno di fondare una squadra di calcio. Non per ricavarne chissà quale gloria o risultato tangibile, piuttosto per riannodare il filo con un passato che lo intrigava e commuoveva. L’obiettivo era quello legarsi a un nome, tenere alto un vessillo, far rivivere una storia speciale annientata dal vortice nero del Male. Dopo alcuni anni di elaborazione il tentativo è andato a buon fine e oggi l’Hakoah Bergen County, team che veleggia con qualche difficoltà nelle acque placide della North Jersey Soccer League, è una realtà a suo modo straordinaria. Stella di Davide in bella mostra sulla casacca, colori sociali bianco e blu, questo gruppo multietnico – che annovera atleti da Israele e dal Ghana, ma anche da Russia, Francia e Liberia, oltre ad un ex calciatore di prima divisione norvegese – rende infatti omaggio agli eroi dell’Hakoah, la gloriosa polisportiva della Comunità ebraica di Vienna. Un nome che ad alcuni potrebbe anche dir poco, ma che agli albori del calcio professionistico, quando i padroni del pallone erano inglesi, austroungarici e (perché no) italiani, fece più volte palpitare il cuore di milioni di appassionati in tutto il mondo prima di essere rimosso per “giudaicità” con l’invasione tedesca dell’Austria. Un titolo nazionale, una memorabile vittoria per 5 a 0 sul terreno del West Ham, in casa di quei britannici orgogliosi inventori del football e fino a quel momento mai violati sul sacro suolo patrio da compagini di Oltremanica. Affermazioni a ripetizione, record bruciati, perfino una esaltante tournee americana seguita da decine di migliaia di spettatori ad ogni pubblico incontro. L’Hakoah è stato un mito, un modello per l’equilibrio riuscito tra coraggio, forza e identità. Una leggenda che solo Hitler e il nazismo riuscirono ad arrestare pur non cancellandone l’aura di magia. “Ho scoperto questa vicenda incredibile una decina di anni fa passeggiando per le sale del Museo della Diaspora a Tel Aviv” racconta Glickman al giornale americano The Jewish Standard. Da allora, prosegue, l’idea di rievocare il nome e i fasti dell’Hakoah negli Stati Uniti “è diventata un’ossessione”. Ron, un discreto trascorso in maglietta e calzoncini al Teaneck High School, inizia a lavorarci su in maniera artigianale: contatta alcuni vecchi amici e pubblica volantini a tappeto nello Stato del New Jersey. All’inizio è molto dura. Negli States il calcio, nonostante la cura massiccia a base di Beckham, Henry & C., non ha ancora l’appeal auspicato. Però la tenacia è una qualità che non difetta e così, pur attraversando non poche insidie, il nostro riesce comunque a formare un nucleo di venti effettivi, grazie anche alla complicità del fratello Dov, singolare figura di giocatore-manager, e dello sponsor, la compagnia aerea israeliana El Al. Dalla federazione, dulcis in fundo, arrivano poi le autorizzazioni necessarie per l’iscrizione al campionato. L’impresa può così dirsi riuscita. Dopo Svezia, Francia, ovviamente Austria, paesi in cui – perlopiù a livelli semiamatoriali – si pronuncia ancora la parola Hakoah nel fazzoletto verde, è il momento degli Stati Uniti. Con un carico simbolico particolare. “La cosa forse più bella è che pur essendo una squadra a suo modo ‘ebraica’ – spiega Ron – solo metà dei suoi componenti ha un legame con questa identità. Da noi convivono uomini con culture e religioni diverse, ciascuno orgoglioso di rievocare una storia così grande e allo stesso tempo così dolorosa”. I traguardi agonistici sono certo un’altra cosa rispetto agli allori della “vera” Hakoah. Il Bergen County, al suo esordio, ha collezionato infatti quattro sconfitte su cinque match disputati. Ci si augura che possa invertire la rotta e migliorare. “Ma l’importante – giura Glickman – è esserci. Il resto conta poco”.

Adam Smulevich (Pagine Ebraiche febbraio 2012)