Davar acher – Identità in bilico
L’ultimo numero della “Rassegna mensile di Israel”, datato gennaio-agosto 2010 ma in realtà uscito da poco, e intitolato a “Un’identità in bilico: l’ebraismo italiano tra liberalismo, fascismo e democrazia”, a cura di Mario Toscano, è particolarmente interessante e merita una riflessione seria da parte di chi si occupa dell’ebraismo italiano. Fra i molti temi del grosso volume (la cultura dei rabbini e le forme giuridiche, i modelli educativi e le dinamiche sociologiche globali, la beneficenza, la letteratura, la religione e i musei), mi ha colpito il filo rosso della tentazione universalistica dell’ebraismo postunitario che emerge da molti dei saggi, in particolare da quelli di Gadi Luzzatto Voghera sull’evoluzione religiosa, di Rav Gianfranco di Segni sul rabbinato, di Sergio Della Pergola sulla “via italiana all’ebraismo”. Il cammino dell’emancipazione impose agli ebrei italiani (e immagino non solo a essi) di ripensare la propria cultura non solo in termini del riferimento tradizionale al sistema di obblighi e di valori che costituisce la legge ebraica, cioè di quel sistema di relazioni interne alla comunità che Avishai Margalit chiama “etica” (“Etica della memoria”, traduzione italiana Il Mulino 2007), ma soprattutto nei termini generali di valori che Margalit direbbe “morali”, in quanto validi per tutti. Per molti questo significò l’abbandono progressivo dei costumi ebraici, il rifiuto di ogni peculiarità e la “privatizzazione” della propria appartenenza. Per costoro l’ebraismo si è trasformato in un rapporto generico con l’umanità, in un senso di giustizia (una morale, per l’appunto) che li porta spesso all’impegno politico e sociale. Anche coloro che vollero conservare il proprio ebraismo ritennero di doverlo giustificare in termini universali, come una sorta di pedagogia morale, “appena inferiore a quella di Kant, ma praticabile”. Contemporaneamente l’ebraismo si ridefinì in termini di “religione” (magari “mosaica”), secondo il modello di separazione della sfera religiosa da quella civile elaborata dalla tradizione cristiana. Essere ebrei, secondo questa linea, divenne credere in certe cose (magari assai generiche, come “la religione della gioia della speranza e dell’amore” vista l’apertura teologica della nostra tradizione e il disinteresse subentrato per gli studi talmudici o kabbalistici) e praticare pochi riti che nei dettagli minori ma significativi (l’architettura delle nuove sinagoghe monumentali, l’abbigliamento dei rabbini, l’aspetto dei cimiteri) si sforzarono di assomigliare alla maggioranza. Non si tratta qui di “assimilazione” ma di vera e propria egemonia culturale da parte del mondo circostante e dunque del Cristianesimo. Alcune espressioni di autodisprezzo di ebrei otto e novecenteschi colti e borghesi per la propria tradizione (da certe frasi di Lombroso alle tentazioni di conversione di Rosenzweig, fino al suicidio di Otto Weininger, per fare solo pochi esempi fra i moltissimi che si potrebbero citare), non si spiegano se non per questa egemonia del modello cristiano, in particolare della sua dimensione “cattolica”, cioè universalistica. L’universalismo ebraico cercò soprattutto di essere rispettabile, filosofico, umanitario; si fece patriottico (del patriottismo italiano, tedesco, americano) spesso socialista, qualche volta direttamente cristiano; ebbe come avversari tanto il sionismo quanto la religiosità tradizionale. Anche se le cose sono molto cambiate dopo la Shoah e la fondazione dello Stato di Israele, la trasformazione universalistica dell’ebraismo vive ancora nel profondo della mentalità di molti degli ebrei contemporanei soprattutto della diaspora occidentale e di certi strati culturalmente egemoni della popolazione israeliana, alimentando riserve verso lo stato ebraico, sensi di colpa per la propria identità, bisogno di approvazione da parte dell’opinione pubblica “progressista”. Ma, come mostra Margalit nel libro che ho citato, accanto alla “morale” universale vi è “l’etica” delle “relazioni spesse” del gruppo dei “prossimi” (si tratti della famiglia, del gruppo, del popolo). Quest’etica particolare, che impone certi obblighi e una certa memoria particolare è la ragione principale della sopravvivenza dei gruppi sociali: se l’ebraismo si dissolve in una memoria universale e in un amore universale, il risultato è ovviamente la sparizione di Israele. Il paradosso vuole che l’antisemitismo diffidi degli ebrei che si adeguano all’egemonia culturale circostante (vedendoli paranoicamente come infiltrati) anche più di quanto non detesti gli ebrei ben identificabili per usi e costumi separati. Di qui una reazione identitaria che negli ultimi decenni ha ridato impulso alla cultura ebraica, col prevalere del sionismo e di una rinnovata religiosità di alcuni. E’ in fondo la storia di tutte le assimilazioni fallite, come quelle che ricordiamo a Pesach, a Purim, a Hannukkah, secondo un’etica della memoria che è obliata e rimossa nelle traduzioni cristiane delle nostre Scritture. Dobbiamo ricordarcene non solo quando siamo richiamati alla guardia dall’antisemitismo esplicito e violento che risorge, ma anche di fronte a tutte le spinte universalistiche che ci chiedono di adeguare la nostra identità a criteri esterni, a ridurre la nostra “etica” e alla nostra memoria a una “morale” generica. L’ebraismo vivo è universale, nel senso che riconosce i diritti e l’umanità di tutti, pretende che i suoi valori possano essere in futuro diffusi e condivisi; ma non è universalistico nel senso di dissolvere la propria specifica identità e la propria missione nella semplice uguaglianza della condizione umana.
Ugo Volli