Respingimenti

Se per il dizionario indica semplicemente “l’atto del respingere”, oggi la ricerca su Google lega la parola alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia per i migranti respinti in Libia nel 2009. Il termine in questi ultimi tempi sembrava uscito dalla cronache e dai dibattiti, ma per caso lunedì scorso a Torino è stato presentato in Comunità il libro di Silvana Calvo intitolato A un passo dalla salvezza. La politica svizzera di respingimento degli ebrei durante le persecuzioni 1933-1945. Cos’hanno in comune, oltre all’uso dello stesso termine, le due situazioni? Certo, il contesto storico è completamente diverso (e sappiamo bene quanto siano pericolosi i paragoni troppo facili con la Shoah); ma in entrambi i casi c’è uno stato democratico che non ritiene di doversi assumere la responsabilità per il destino delle persone respinte al di là dei propri confini; e in entrambi i casi c’è anche da parte di qualcuno la convinzione di fare in qualche modo il loro bene: in Italia si insiste spesso sulle misere condizioni in vivono cui gli immigrati, in Svizzera c’era chi affermava che era necessario respingere gli ebrei per evitare che nel Paese si diffondesse l’antisemitismo. Mi sembra che questo tipo di argomentazioni venga tirato fuori quando si ragiona sul quadro d’insieme e non sulle persone singole: ci si domanda quale sia il bene di una categoria generica, e non di uno o più individui in carne ed ossa. Se ogni volta che si deve decidere del destino di qualcuno si dovesse tener conto delle prospettive di una regione, di un Paese, o addirittura del mondo intero, salvare una singola vita umana talvolta potrebbe apparire inutile: perdere di vista i casi concreti può diventare dunque molto pericoloso. Per questo mi sembra interessante il fatto che la sentenza della Corte europea non riguarda la politica italiana verso gli immigrati in generale, e neppure una legge, ma la specifica vicenda di un gruppo di singoli individui ciascuno con la propria storia.

Anna Segre, insegnante