Davar Acher – Utopia

Sono passati cinque secoli da quando Thomas More (esattamente nel 1516) lanciò il termine “utopia” come nome del paese perfetto e titolo del libro che lo descriveva. Non mi interessano qui i dettagli della proposta politica di More e neppure la sua genealogia di pensiero, ma proprio la mossa linguistica. “Utopia” significa non-luogo e More lo scelse per collocare esplicitamente la sua isola nell’ambito della fantasia, forse anche per sottrarsi a possibili accuse politiche. Da una ventina d’anni i non-luoghi sono rientrati in tutt’altra accezione nel dibattito culturale grazie all’antropologo Marc Augé che ha chiamato così quei numerosissimi edifici, spazi industriali e commerciali che sono simili in tutto il mondo, dai grandi magazzini agli aeroporti, dagli uffici alle metropolitane. In genere la perdita di legame con i luoghi e le tradizioni culturali di questi spazi è giudicata negativamente, e così tutto sommato la pensa Augé, ma non si può sottovalutare il loro legame con la maggiore ideologia architettonica dell’ultimo secolo, quel razionalismo che non a caso fu definito “movimento internazionale” per cui “la forma deve rispecchiare la funzione” senza tener conto di cose ininfluenti come gusti e tradizioni culturali: i non luoghi, se portati alle estreme conseguenze, sono l’ideale di Loos, Le Corbusier e dei loro allievi non solo architetti.
La cultura del Novecento e la sua coda che ancora domina il nostro secolo, è stata utopistica in entrambi i sensi. Da un lato ha coltivato grandi illusioni di costruire mondi perfetti, dalle utopie forti e violente che si sono rivelate terribili prigioni dei popoli e fabbriche di morte come il comunismo e il nazifascismo, a quelle deboli e meno impositive delle organizzazioni internazionali del secondo dopoguerra come l’Onu , la World Trade Organization (WTO) e l’Unione Europea (di cui oggi sfugge forse il carattere utopistico con cui sono sorte e che ancora le determina). Il pensiero utopistico, cioè ideologico, basato su un dover essere che non ha sede in nessun luogo e che però ha tanto valore da dovergli sacrificare tutto, interessi specificità ma anche vite umane, domina ancora la mentalità collettiva, anche se le sue politiche sono sempre fallite.
Dall’altro lato la pratica dei non-luoghi ha fatto passi da gigante: l’uniformazione ha investito non solo l’architettura, ma la maggior parte degli aspetti della vita collettiva e individuale, assumendo il nome di globalizzazione. Le stesse macchine, gli stessi prodotti, gli stessi abiti, le stesse musiche, gli stessi cibi, la stessa lingua si ritrovano progressivamente dovunque nel mondo. Le regolamentazioni internazionali, in particolare l’Unione Europea, mirano sempre più a uniformarlo, ritenendo che ogni definizione geografica sia un ostacolo alla libera concorrenza.
Coerentemente a questa grande tendenza di pensiero, nell’ultimo secolo o secolo e mezzo molti nel mondo ebraico hanno presentato l’ebraismo come una specie di utopia, col desiderio senza dubbio ben intenzionato di giustificarne il valore di fronte ai grandi movimenti ideologici e universali. L’ebraismo secondo questa logica sarebbe semplicemente spinta etica, amore di giustizia, rigore morale. Il celebre detto di Hillel che, interpellato da un candidato alla conversione a spiegargli tutto l’ebraismo mentre stava su una gamba sola, gli rispose “Tutta la Torah sta in questa norma: non fare agli altri quello che tu stesso non vuoi sia fatto a te. Il resto è commento: va’ e studia” (Shab. 31a) viene forzato da queste letture utopistiche non solo universalizzando il concetto di prossimo – il che non è scontato né lessicalmente né per il pensiero ebraico – e soprattutto trattando la seconda parte della frase come se fosse derogatoria. Ma il commento per noi è il metodo essenziale del pensiero e lo studio della Torah riassume tutte le virtù (Peà 1,1).
Il punto è che l’ebraismo non è affatto un’utopia, non è indifferente ai luoghi, ma anzi si costruisce sulla valorizzazione di una certa terra, Eretz Israel, e dentro di essa di una città, Jerushalaim e di un edificio, il Santuario. Erigerlo (o erigere il Tabernacolo che lo precede) è condizione, come abbiamo letto ieri nella porzione settimanale di Torà, perché la presenza divina abiti non in esso, ma in mezzo al popolo ebraico. L’ebraismo è fortemente “topico”, tratta lo spazio come una struttura dinamica e gerarchica e considera che il compito del popolo ebraico possa svolgersi interamente solo in un certo luogo, a differenza del cristianesimo, che è relativamente indifferente ai luoghi. Anche l’Islam è “topico”, ma con notevoli differenze: non solo il suo focus spaziale è altrove, alla Mecca e non a Gerusalemme, mai nominata nel Corano; ma la sua idea è che lo spazio sacro (Dar el Islam) debba espandersi anche con le armi fino a comprendere tutta la terra (globalizzandosi così di nuovo). Niente del genere c’è nella nostra tradizione.
L’ebraismo non è utopistico neppure negli altri sensi: non mira all’uniformazione universale, anzi tiene alla propria differenza e non chiede ai popoli di assumere i suoi costumi ma accetta i loro sottoposti solo a certi principi generalissimi (le sette leggi dette di Noè: non ammazzare, non bestemmiare, rendere giustizia ecc.). L’ebraismo non è neppure ideologico, non mira a instaurare un sistema ideale in cui ogni dettaglio sia frutto di principi teorici perfetti (com’era l’Utopia di Moro e come voleva essere il comunismo); sa bene che nell’ordinamento prescritto dalla Torah vi sono aspetti inesplicabili e non razionali, specificità imposte dalla Legge, o anche tramandate come costumi locali, che sono valide in quanto tali. La Scrittura registra puntigliosamente le resistenze all’insegnamento di Mosè e il fallimento dei Re, insegnando anche a non fidarsi del potere politico, a non credere che una decisione politica possa supplire a quelle pratiche del dubbio e dell’intelligenza (il commento, lo studio) che sono la sua specificità. Conserva invece con passione il suo attaccamento ai suoi luoghi e alla sua specificità a costo di doverli difendere con le armi, com’è spesso successo nell’antichità e ancora accade in questi giorni. L’ebraismo insomma non è un’utopia “non è in cielo o al di là del mare”, ma è esattamente il suo contrario: pratica dei luoghi e del pensiero critico.

Ugo Volli