Oscar – Premiati il silenzio di Hazanavicius
e la storia di Melies che sostenne Dreyfus

E’ mancato un nuovo trionfo per la cinematografia israeliana, che con lo splendido e forse troppo intellettualistico Footnote non è riuscito a imporsi nella competizione, ma la notte degli Oscar è stata densa di riferimenti e di significati ebraici. Nella sua ottantaquattresima edizione, un film muto ha trionfato per la prima volta dal 1929. Con The Artist, definito dal New York Times “una lettera d’amore a Hollywood”, il regista francese Michel Hazanavicius ha raccolto i frutti di una scelta coraggiosa, riportando sul tetto del mondo il cinema europeo con la vittoria di cinque statuette tra le più ambite: miglior film, regia, attore, costumi e colonna sonora.
“È più efficace l’astinenza dalla parola che dal cibo e dalle bevande – diceva il Gaon di Vilna, grande Maestro dell’ebraismo del diciottesimo secolo – Il confronto con il silenzio ci insegna quanto spesso delle parole facciamo cattivo uso”. Un insegnamento che Hazanivicius ha assorbito sin da giovanissimo, perché le parole mai pronunciate hanno rappresentato una parte fondamentale della sua vita ben prima che si mettesse dietro a una cinepresa. I suoi genitori e nonni sopravvissero all’occupazione nazista della Francia proprio grazie alla scelta di nascondersi dietro a un silenzio totale sulla propria identità ebraica, anche per meglio difendere i propri figli. L’ebraismo in cui il vincitore della statuetta per la miglior regia è cresciuto fu dunque quello delle cicatrici e degli orrori mai raccontati che la Shoah portò nella sua famiglia, e che gli insegnò il potere delle parole non dette. “I miei nonni non parlavano. E neppure i miei parenti che tornarono dai campi – ha raccontato il regista in una recente intervista al Jewish Journal di Los Angeles – Il silenzio è un linguaggio universale, come la musica o la pittura. Le parole ti confinano nello spazio geografico di una lingua”. The Artist racconta la parabola di George Valentin (Jean Dujardin) da divo del cinema muto ad artista dimenticato e poi salvato dall’amore e dalla capacità di rimettersi in gioco di fronte al cambiamento. “Il mio film è incentrato su un uomo che si trova costretto ad adattarsi o a perdere tutto. Penso che tutte le vicende del popolo ebraico rappresentino la capacità di trasformarsi di fronte alle avversità, senza però rinunciare a se stessi”. Proprio come riesce a fare il bel Valentin.
La Francia e la storia del cinema sono stati assoluti protagonisti della notte di Los Angeles non solo con The Artist, ma anche con il primo film in 3D firmato dal regista Martin Scorsese, Hugo Cabret.“Se ti sei mai chiesto da dove vengono i tuoi sogni… Beh, è qui che vengono creati” dice il giovane George Méliès, interpretato da Ben Kingsley, al bambino dagli occhi sgranati che visita i suoi studi cinematografici nella Parigi dorata della Belle Epoque. Quel bambino diventerà l’esperto di cinema professor Tabard, che aiuterà Hugo e Isabelle, i piccoli protagonisti del film, a ricordare all’ormai triste e dimenticato Papà George la magia di quegli anni, quando il cinema rappresentava davvero la fabbrica dei sogni verso un futuro meraviglioso. Hugo Cabret è arrivato alla cerimonia per l’assegnazione degli Academy Awards da grande protagonista, con ben 11 candidature, tra cui miglior film e miglior regia, e ha raccolto un bottino di cinque statuette (miglior fotografia, effetti speciali, montaggio sonoro, effetti sonori e scenografia, firmata dagli italiani Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, alla terza volta sul palco del Kodak Theatre).
Fu un sognatore George Méliès (Parigi, 1861-1938), grandissimo produttore/regista/attore degli albori del cinema. Ma nella vita non dimenticò l’importanza del mondo reale, per cercare di trasformarlo in un posto migliore. Tanto da scegliere di portare sul grande schermo il più grande intrigo politico del diciannovesimo secolo: l’Affaire Dreyfus. Perché, come il più celebre scrittore Emile Zola, di fronte all’ingiustizia delle accuse contro l’ufficiale ebreo, Méliès comprese che non poteva rimanere semplice spettatore, ma doveva mettere la sua arte al servizio della verità. Da Gare Montparnasse, la stazione dove si svolge gran parte di Hugo Cabret, partivano i treni per la città di Rennes, che il governo scelse nel 1899 come sede del secondo processo a Dreyfus, invocato da tanti francesi sulla spinta del J’accuse di Zola. Méliès, in quegli anni all’apice del successo, portò Rennes nei suoi studi, dove filmò una serie di corti sulla storia dell’ufficiale, che rievocavano, avvalendosi di tutte le tecniche più avanzate dell’epoca, le tappe della vicenda, dal processo farsa alle sofferenze dell’esilio sull’Isola del Diavolo. L’impatto sul pubblico fu enorme, la proiezione dei documentari provocò continui tafferugli tra innocentisti e colpevolisti. Al punto che Méliès divenne il primo regista della storia la cui opera fu censurata dalle autorità francesi, terrorizzate dal modo in cui un mezzo di comunicazione che doveva essere soltanto un piacevole passatempo per le masse era stato capace di mettere a nudo uno scandalo politico. Tanti applausi, ma niente Oscar invece per il film israeliano Footnote (Nota a piè di pagina), candidato nella categoria miglior film straniero. Incentrata sulla storia di una delicata rivalità tra padre e figlio, grandi studiosi di Talmud, la pellicola di Joseph Cedar già nominato per gli Academy Awards nel 2007 con Beaufort, aveva ottenuto al Festival di Cannes il premio per la miglior sceneggiatura. L’ambita statuetta è andata all’iraniano A separation, del regista Asghar Farhadi, che ha battuto anche In Darkness, pellicola della polacca Agnieszka Holland sulla vicenda di un gruppo di ebrei che nel 1943 per sfuggire ai nazisti, si nascondono nelle fogne della cittadina di Lvov.

Rossella Tercatin