In cornice – Tel Aviv, i restauri, il senso del bene comune
A Tel Aviv non si arresta un attimo l’attività di recupero degli edifici storici, siano essi in stile Bauhaus, eclettico o “coloniale”. Shderot Rotschild (Rotschild boulevard) è ormai un museo a cielo aperto, il vecchio quartiere di Nevè Tzedek è stato da anni tirato al lucido da ricchi bohemiens, la stazione ferroviaria abbandonata della linea Yaffo-Gerusalemme è oggi un centro commerciale e un punto di ritrovo di grande fascino. La scorsa settimana ho notato anche il progressivo recupero dell’area sud di rehov Hayarkon; di fronte all’albergo Dan, una casa Bauhaus, che fino a un paio di anni fa era disabitata e in rovina, è pronta per riaccogliere condomini nei suoi volumi equilibrati e armonici. L’orgoglio sionista per il lavoro compiuto, lascia spazio ad almeno due riflessioni. Se Tel Aviv, dopo aver quasi buttato alle ortiche il suo passato (impossibile dimenticare la distruzione dello storico Ginnasio Herzelia per far posto all’orrendo grattacielo di Migdal Shalom), ha cambiato atteggiamento, possibile che non sia possibile seguire l’esempio in tante città italiane? E poi, il restauro degli edifici storici di Tel Aviv è per lo più opera di privati, che in cambio ricevono il permesso di costruire negli spazi adiacenti. Il rischio di scempio architettonico sembra enorme: il costruttore potrebbe far finta di restaurare il passato, o costruire nuovi edifici incompatibili con quelli vecchi. Le istituzioni potrebbero fra finta di controllare e accettare di tutto, casomai a fronte di laute mazzette. Tutto questo non accade, solitamente. Il perché sta anche nel maggior senso del bene comune che hanno sia le istituzioni sia i privati israeliani, rispetto, ad esempio, a quelli italiani. Ecco un’implicazione pratica del concetto del patriottismo.
Daniele Liberanome, critico d’arte