Ici e libertà di culto

Da più parti si chiede alla Chiesa cattolica, il cui patrimonio immobiliare è molto consistente, di partecipare allo sforzo che il Paese sta affrontando per uscire dalla crisi economica e politica dell’Eurozona e della sua moneta, assoggettando i propri immobili alla tassazione Imu o Ici che dir si voglia. Il presidente della Cei cardinal Bagnasco ha fatto a più riprese alcune aperture, ma anche ribadito che la Chiesa cattolica paga le tasse secondo la legge, come dire che non siamo di fronte a una maxievasione dalle imposte. Lo stesso cardinale, e anche altri prelati intervenuti nel dibattito hanno, giustamente, ricordato che lo status tributario della Chiesa è lo stesso delle altre confessioni religiose e delle formazione sociali del volontariato laico. Dal 2010 la Repubblica italiana è sotto procedura d’infrazione dei trattati comunitari da parte della Commissione europea, per aiuti di Stato e turbativa della concorrenza. La Commissione, sollecitata in più occasioni anche da organismi non governativi italiani, ha chiesto all’Italia di chiarire l’effettivo status tributario delle confessioni religiose in merito alla tassazione Ici, mentre ha ritenuto non fondate altre denunce che le sono giunte in relazione alla tassazione Irpeg (oggi Ires). La decisione della Commissione europea conferma che esiste un problema da chiarire in merito alla tassazione Ici degli immobili delle confessioni religiose. Le Comunità ebraiche in Italia godono, ovviamente, dello stesso regime di tassazione della Chiesa cattolica, ed è per questo che anche recentemente l’UCEI è stata invitata a prendere pubblica posizione sulla questione. In verità l’Unione delle Comunità Ebraiche ha già assunto una posizione precisa nel memorandum in relazione alla procedura d’infrazione che ha inviato alla presidenza del Consiglio all’inizio del 2011. Per fare chiarezza è necessario ribadire che anche gli immobili di proprietà delle organizzazioni religiose produttori di reddito, cioè concessi in locazione, pagano regolarmente l’Ici. L’esenzione riguarda perciò solo gli immobili utilizzati direttamente per fini istituzionali dalle organizzazioni religiose. L’UCEI ritiene giusto e necessario che gli immobili direttamente utilizzati dagli enti proprietari per il raggiungimento dei fini religiosi, sociali, culturali, educativi ed assitenziali a cui sono istituzionalmente indirizzati in base ai loro Statuti, non siano soggetti al pagamento dell’Ici per il semplice motivo che diversamente saremmo di fronte ad una tassa sulla libertà di culto o sulle attività sociali e non di lucro. Rientrano tra questi immobili oltre agli edifici di culto, gli uffici e le sale di riunione, e tutti i locali utilizzati per i fini istituzionali di educazione, cultura, assistenza sociale, a favore degli iscritti e dei cittadini interessati. Il problema si pone quindi qualora un immobile di proprietà di un ente religioso sia direttamente utilizzato, in tutto o in parte, dal proprietario per svolgervi un’attività economica. Attività che obiettivamente entrano in concorrenza con attività similari gestite da soggetti economici (alberghi e pensioni, case di cura, negozi e altre attività di somministrazione che in riscuotono dei corrispettivi per i servizi che svolgono). L’Unione delle Comunità ritiene che in questi casi l’Ici debba essere corrisposta. Questa posizione è in linea con le osservazioni della Commissione Ue in relazione alla turbativa della concorrenza laddove soggetti riconducinbili a enti religiosi e altri soggetti svolgono la medesima attività economica, i primi in posizione di vantaggio sui secondi in quanto esentati dal pagamento di una tassa, che in definitiva è un costo dell’impresa. Né vale la considerazione per cui le “imprese religiose” possono praticare, in assenza del maggior costo dell’Ici, prezzi più bassi per i meno abbienti e i bisognosi, poiché equivale a confermare che i due soggetti sono in concorrenza e che il soggetto agevolato riesce a intercettare una parte della clientela proprio in virtù dei minori costi che sostiene. Naturalmente diversa la situazione quando l’attività sociale è svolta gratuitamente (ambulatori medici, mense, dormitori, seminari e così via). Un discorso a parte lo meritano le scuole, laddove il trattamento tributario deve essere lo stesso riservato alle scuole pubbliche, purché anche le scuole religiose vengano gestite senza nessun profitto economico al solo scopo di fornire una educazione religiosa altrimenti non usufruibile. Ho molto apprezzato l’apertura che su questo argomento ha fatto il cardinale Bagnasco, poiché è opportuno disinnescare l’ondata di insofferenza per la Chiesa prima che un fenomeno di preconcetta indignazione avvii un sistematico attacco nei confronti della normativa che prevede che l’Otto per mille dell’Irpef venga versato alle confessioni religiose in maniera proporzionale alle scelte effettuate dai contribuenti.

Anselmo Calò, vicepresidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
(Pagine Ebraiche marzo 2012)