…equilibri
Stefano Jesurum ha lanciato su Mosaico un appello per l’unità dell’ebraismo e per l’abbattimento degli steccati. E ritorna infine motivatamente l’attenzione sul problema, vero e ineccepibile, dei ghiurim. L’ebraismo italiano si sta dibattendo da tempo fra i due estremi dell’integralismo religioso e della ricerca di una identità più sfumata. Mantenersi in equilibrio non è facile. Quella dell’ebraismo italiano è crisi profonda, e a risolverla non saranno né le siepi rigoriste e fondamentaliste, che questa crisi hanno avviato, né la corsa alle sacre aspersioni d’ufficio, che risolvono la questione del riconoscimento formale ma non garantiscono assunzione consapevole di identità. Ci si potrebbe allora chiedere che cosa significhi essere ebrei, fare figli ebrei, o fare ebrei i propri figli. Perché si può riconoscere, con un po’ di coraggio, che affermando il valore della continuità biologica – della comunità, della famiglia – si rischia di assumere una posizione che rasenta il razzismo. E, per non rasentarlo, bisogna ammettere che essere ebreo è assunzione di responsabilità culturale e di una pur variabile e ‘negoziabile’ ortoprassi. Fare ebrei i figli, senza dare loro kiddush, shabbat, casheruth, studio e cultura della Torah, pur in misure argomentabili, vuol dire accettare di veder morire il loro ebraismo con la generazione successiva, facendogli l’unico dono sgradito dell’antisemitismo. Tanto vale avere il coraggio dell’eutanasia. Un’immagine troppo forte e sgradevole a cui l’animo di chi legge si ribella? Bene. Si ribella anche la coscienza di chi, a cadenza regolare, sente che si cerca di risolvere la questione individuale del ghiur attraverso un movimento di coscienze collettivo, una moderna class action. Come se l’adesione all’ebraismo non fosse problema culturale e di vita del singolo, ma pura questione di ‘omogeneità’ famigliare. Se si ha a cuore la sopravvivenza di un ebraismo più forte e coeso non se ne sacrificano le fondamenta alla soluzione della crisi personale. La proposta di qualcosa di più meditato e credibile non può che passare attraverso il previo riconoscimento della nostra crisi. Che non è crisi delle modalità di conversione. La soluzione non la si può cercare solo nella trattativa con il rabbinato, da cui ci si potrebbe attendere un po’ più d’apertura e, magari, un po’ più di impegno. Forse il primo spiraglio di soluzione lo si dovrebbe individuare nella trattativa con la propria coscienza ebraica e con la coscienza ebraica dei propri figli.
Dario Calimani, anglista