La stella di Shel

Come molti italiani della mia generazione (sono del ’54), da adolescente fui affascinato dalla musica e dal messaggio dei Rokes, il popolare gruppo inglese che, giunto in Italia, conquistò il nostro pubblico giovanile con suggestive canzoni, cantate in italiano, tanto da restare nel nostro Paese per lunghi anni, segnati da continui successi. Molte persone della mia età ricordano i contenuti poetici e ispirati dei loro testi, che parlavano di fratellanza, partecipazione, speranza, futuro, indicando una possibile “terza via” tra i soliti temi dell’amore “a due” e quelli, un po’ barbosi, dell’impegnativa militanza politica. Nel mio caso, la passione per il brillante gruppo fu accesa e alimentata da un mio cugino, Massimo Lucrezi, eccellente musicista, ancora in attività, che tanto li ammirava da avere poi intrecciato, dopo lo scioglimento della band, una frequentazione personale con ciascuno di loro, che dura tuttora. Leader indiscusso dei Rokes, com’è noto, era l’altissimo David Shapiro, idolo delle ragazzine, in arte Shel Carson, che scelse poi, credo per la felice assonanza tra il suo cognome originale e il nome d’arte, di farsi chiamare Shel Shapiro. Rimasto a vivere in Italia, è tuttora un musicista, produttore musicale e, talvolta, attore di successo. Quando è venuto a Napoli, un paio d’anni fa, è stato per me un particolare piacere andarlo a salutare – ovviamente, accompagnato da Massimo – e scambiare con lui due chiacchiere, che me ne hanno confermato, anche sul piano personale, la carica di simpatia e comunicativa.
Ho letto con accentuato interesse, perciò, l’intervista a Shel apparsa sul numero di febbraio di Pagine Ebraiche, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia “Io sono immortale”, nella quale il musicista parla della sua identità ebraica e delle avventurose peripezie attraversate dalla sua famiglia di ebrei sefarditi fuggiti dalla Russia. A colpirmi, in particolare, è stata una confessione fatta da Shel a proposito della stella di Davide da lui portata al collo. L’idea di indossare tale simbolo, spiega, gli venne quando assisté alle riprese di un crudo episodio di cronaca di trent’anni fa, che vide alcuni sodati israeliani in divisa accanirsi a picchiare un uomo indifeso. “Io mi vergognai – scrive Shel – della capacità di tutti noi di essere senza compassione umana, della nostra stupidità. Mi sono messo la stella di Davide per dire: parliamone… sono pronto a discutere”.
Anche se Shel non lo dice con esattezza (e nonostante alcune piccole discordanze: sono passati ventidue anni, anziché trenta, e le vittime erano due, non una), l’episodio a cui si riferisce è, quasi sicuramente, quello di una ripresa, fatta circolare nel 1990, ove si assisteva al brutale pestaggio di due arabi inermi da parte di alcuni uomini di Tsahal, che parevano accanirsi sui malcapitati con meticolosa, studiata ferocia. Le immagini fecero il giro del mondo, tutti i telegiornali vi dedicarono lunghi servizi di apertura, ricordo benissimo il titolone a tutta pagina di Repubblica: “orrore in Israele”, con il lunghissimo articolo che si chiudeva con la constatazione che la memoria della Shoah era ormai definitivamente infangata. Nell’Università “la Sapienza” di Roma, occupata dagli studenti (organizzati nel movimento della cd. “Pantera”), le immagini furono proiettate no stop, giorno e notte, per intere settimane. Il mondo, insomma, ebbe un’endovena di antisemitismo di proporzioni davvero speciali.
Quasi nessuno – a quanto pare, neanche Shel -, circa un anno dopo, fece caso a un minuscolo trafiletto di due-tre righe pubblicate, in pagina interna, da qualche giornale, dove si informava che le riprese erano in realtà una finzione, recitata a bella posta da comparse a pagamento, a beneficio di un reporter senza scrupoli, in cerca di un falso scoop. Cose che capitano. Ma, stavolta, niente telegiornali, niente titoloni, niente “riparazione” della memoria, niente Pantera. Il mondo voleva l’endovena, non certo l’antidoto.
Ma quello che mi piace segnalare, di questo triste episodio, è la particolare nobiltà della reazione di Shel. Tutti gli ebrei, di fronte al finto video, si saranno indignati, condannando e prendendo le distanze. Molti avranno manifestato stupore, incredulità, sconcerto. Qualcuno, che già portava al collo la stella di David, può forse avere avuto la tentazione, almeno per qualche giorno, di nasconderla. Ma nessuno, che già non la indossasse, avrebbe scelto proprio quei giorni lì di cominciare a esibirla, rivendicando così pubblicamente quella difficile, scomoda appartenenza, e difendendo così quel simbolo che vedeva, da altri, vilipeso. Nessuno, tranne Shel. Che ha confermato, anche in quell’episodio, di avere un cuore.

Francesco Lucrezi, storico