Davar Acher – Purim e la salvezza

Uno dei risultati positivi dello sviluppo della comunicazione ebraica di questi ultimi anni è che è ripartita una discussione pubblica di pensiero ebraico che molto a lungo era mancata. Talvolta questa discussione è un po’ tumultuosa e accidentata, ma spesso non è solo divulgativa, presenta originalità e motivi di interesse. Così è stato per esempio con le diverse analisi che si sono fatte su questo sito a proposito della festa di Purim. Anche se la data è già trascorsa, vorrei proseguire questo piccolo dibattito con una considerazione che ha un riferimento più generale.
Il pensiero cristiano interpreta generalmente la Bibbia, inclusi i testi che corrispondono alla nostra Mikrà, la “Lettura” che qualcuno chiama un po’ approssimativamente “Bibbia ebraica”, come “storia della salvezza”. Detto in maniera molto elementare e semplicistica, la “salvezza” è intesa come un fatto individuale, il raggiungimento di uno stato paradisiaco dopo la morte, che può realizzarsi per coloro che l’abbiano meritato (e essenzialmente hanno avuto fede) grazie alla Passione che avrebbe cancellato il “peccato originale” di Adamo ed Eva, causa di dannazione universale. Le vicende dell’”Antico Testamento” sarebbero prefigurazioni e precondizioni per questo intervento sovrumano. L’ebraismo come è noto legge in maniera completamente diversa i suoi testi, anche quelli che sono stati ripresi dal Cristianesimo, ben al di là della differenza fondamentale che consiste nel non riconoscimento ebraico del ruolo messianico (per non parlare della dimensione divina) di Gesù. Il punto culminante della Mikrà per noi ebrei è il dono della Torah, che regola i rapporti interumani e quelli fra sfera umana e sfera divina; dunque costituisce al tempo stesso una legge e una pedagogia dell’umanità autentica. La nozione di “salvezza” individuale non è particolarmente rilevante nella tradizione ebraica; al suo posto troviamo il concetto di “prolungamento dei giorni” che è conseguenza promessa dell’osservanza delle regole stabilite dalla Torah, e il cui significato può essere inteso variamente, anche come prosperità di vita individuale e collettiva su questo mondo. Ma sarebbe sbagliato osservare le leggi della Torà mirando al premio, spiegano molti maestri; bisogna farlo per rispettare l’ordine divino. La Mikrà però non si limita alle prescrizioni, contiene una storia; ma questa storia piuttosto che della salvezza e dei suoi prodromi, è la storia della costituzione, della liberazione, degli errori, della difficile sopravvivenza del popolo ebraico, delle oppressioni che subisce e della libertà che ritrova, grazie ai suoi governanti e talvolta all’intervento divino diretto.
In questa complicata vicenda, che ha un nesso per me molto chiaro con l’idea di “prolungamento dei giorni” dobbiamo leggere dunque una storia collettiva e non individuale: noi non trattiamo come feste religiose rilevanti la nascita di alcuno dei nostri patriarchi e profeti, re e guide; né la loro circoncisione, né la loro salvezza dalla morte (è il caso di Itzhak, quasi “risorto” secondo alcuni maestri) né la loro assunzione in Cielo (il caso di Eliahu); mentre festeggiamo l’uscita dal’Egitto, la salvezza dal tentativo genocida di Haman o dall’assimilazione forzata di Hannukkah, e naturalmente la concessione della Torà; piangiamo la distruzione di Gerusalemme, digiuniamo per l’uccisione dell’ultimo possibile erede di David, per Ester, perfino per i primogeniti egizi: tutte ricorrenze collettive che riguardano la sopravvivenza del nostro popolo e perciò in un certo senso politiche. Sono poche le ricorrenze puramente religiose; la maggior parte di essere hanno una natura che oggi si usa definire “teologico-politica” perché riguardano il “miracolo” di una sopravvivenza collettiva, percepito come tale anche quando, come nel caso di Purim, la presenza divina è “occultata”, “nascosta”, come si usa dire con una lettura allegorica del nome Ester. Naturalmente questo miracolo corrisponde a un valore e questo a un compito, la diffusione di un progetto di umanità, come hanno spiegato i profeti. Ma anche questo modello di umanità riguarda la convivenza fra gli uomini, oltre all’omaggio al divino; è più una missione sociale che metafisica. La scrittura delle tavole della legge che si trasforma in libertà, secondo il noto suggerimento ermeneutico del Talmud, è al centro non solo dell’esperienza storica dell’ebraismo, ma anche della sua etica.
Questo carattere collettivo della vicenda religiosa ebraica e il valore religioso (o teologico-politico) centrale della sopravvivenza del popolo di Israele riguarda anche il presente, il valore anche religioso della creazione dello Stato di Israele, che la maggioranza dei rabbini ha capito, seguendo le intuizioni acute di Rav Kook, ma che alcuni charedim non capiscono. La vitalità intellettuale e morale del nostro popolo deriva anche dalla sua capacità che nella storia c’è sempre stata di unificare il passato e il presente, non nel senso della teologia cristiana dei “tipi” (la legatura di Isacco come “tipo”, segno precorritore della Croce), ma in un senso pedagogico: l’uscita dall’Egitto ci serve anche di lezione per capire che cosa può voler dire uscire da Auschwitz (come ha spiegato Haim Baharier), la storia di Purim ci fa capire ancor di più la legittimità dell’autodifesa e la sua necessità. Non a caso Netanyahu, che è un politico colto e intelligente, un grande capo del popolo ebraico, nonostante tutte la propaganda demonizzante che gli è stata tirata addosso, nella recente visita ha regalato a Obama una Meghillà – quella Meghillà che l’antisemita Lutero non sopportava nella Bibbia e che Julius Streicher, direttore vdel giornale antisemita “Der Stuermer” e inventorev del boicottaggio degli ebrei (quella tattica che oggi seguono palestinesi e neocomunisti contro Israele) condannato a morte a Norimberga, riconobbe come modello della sua sconfitta: per questa storia molto istruttiva consiglio di leggere qui: http://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/Holocaust/Streicher.html. Quel che è importante nelle nostre feste è che ci invitano a partecipare a un destino collettivo, un destino che non è finito e che non ha un esito necessariamente ultraterreno, ma che ci impegna qui e ora a fare le nostre scelte in questa direzione.

Ugo Volli