Tea for Two – Wissotzky mon amour
Per una rubrica che si chiama “Tea for two”, forse i tempi sono maturi per parlare di tea. Qualche giorno fa bazzicavo in rete su facebook (lancio quotidianamente invettive contro Mark Zuckerberg che mi ha trasformata in una larva virtuale) e mi sono imbattuta nella pubblicità del tea israeliano Wissotzky. Un cortometraggio dedicato alle madri ebree che girano come un sevivon per adempiere ai loro sfiancanti compiti. Assodato che le pubblicità dei prodotti alimentari abbiano un fascino perverso – donne perfettamente truccate che lanciano sguardi languidi a un cioccolatino, genitori venticinquenni che si passano sane merendine come se fossero in un musical, sorridendo alla figlia adolescente che sembra Skipper la sorella di Barbie e al piccolo lentigginoso uscito da Billy Elliot – vorrei concentrarmi sui due colossi di questa melliflua pubblicità: il Tè e la Mamma. Se prima era la promessa di un esotismo variopinto e di una intensità che prometteva avventure alla Sandokan o di rivelare le memorie di una geisha, il tè è presto diventato irrinunciabile. Che sia con la regina Elisabetta o accompagni una sessione pomeridiana di pettegolezzi con le amiche. L’ho amato e lo amo molto: dall’arte giapponese del chakai alle scatole deluxe di Laduree. Dalla bustina setosa di Fauchon alla sua comparsa nei film in costume della BBC. Le teiere mi fanno andare in brodo di giuggiole e aspettavo con ansia che Tolstoj facesse qualche considerazione sul samovar mentre leggevo Anna Karenina. Chissà quante decisioni sono state prese sorseggiando il celebre infuso, certamente se gli Stati Uniti ci sono è anche un po’ merito di un carico di tè. Il Wissotzky poi, lo vedo come un brand simbolo di Israele. Bamba e Wissotzky (non insieme però!). Il mio preferito? Quello al sapore di amaretto è la mia madeleine personale (credo c’entrino gli amaretti di Pesach). E quei pubblicitari furbacchioni, quei Don Draper dei miei stivali, hanno pensato bene di far sposare tea con mamma. Non una mamma qualsiasi, la mitica e temuta mamma ebrea. Si potrebbero fare battute alla Allen (“Sto scrivendo un libro su mia madre, il titolo? la sionista castrante!”) o riferimenti letterari, ma non credo di esserne in grado. Quando penso alla mamma, la mia in particolare, mi viene in mente Eshet Chayil. Credo siano parole universali e che si cuciano bene addosso alle donne della nostra generazione che si barcamenano tra lavoro e marmocchi, suocere e mariti, capi e colleghi, animali domestici e vicini di casa sul piede di guerra. Le madri ci sono di notte fonda a ricalcare con te le cartine geografiche per il controllo dei quaderni e la mattina dopo ti svegliano come se non avessero passato tutta la notte a tracciare i confini del Lussemburgo. Mi sembra indicativo poi, che una delle più antiche autobiografie sia di una mamma ebrea, Glikl bas Yehudah Leib, ma questa è un’altra storia. In effetti, forse è giunta l’ora del tè.
Rachel Silvera, studentessa