Moshè

Della storia del vitello d’oro, raccontata nel capitolo 32 di Shemòt, resta aperto un grande quesito: perché, pur sapendo che in quel preciso istante si sta compiendo quella che è la colpa per antonomasia, Moshè decide ugualmente di prendere le Tavole e scendere con esse al solo scopo di romperle? Il rapporto di Moshè con il suo popolo è inizialmente di opposizione netta. Ci sono situazioni in cui al fine di ricostruire qualcosa di autentico è necessario spezzare gli “idoli”. Tuttavia, poco dopo, Moshè prende le difese del suo popolo, si identifica con esso e, di fronte all’offerta di Dio di sostituire quel popolo peccatore con un “nuovo Israele”, composto solo da persone giuste come Moshè e la sua discendenza, il nostro Maestro rifiuta la proposta. Anziché dire: “È vero, loro sono colpevoli, io no!”, Moshè rifiuta di essere il salvatore del mondo e di sostituirsi al suo popolo, si identifica nella colpa, ribadendo in tal modo il principio per il quale “il popolo d’ Israele, Dio e Torah sono un’unica cosa”. Moshè combatte contro il popolo solo perché vuole che quella Torah, che si sta costruendo assieme giorno per giorno, rimanga dentro il popolo ebraico. Il comportamento esemplare di Moshè è la chiave per imparare quale dovrebbe essere il rapporto tra ebreo ed ebreo nell’ambito della Torah. Un rapporto basato su principi di corresponsabilità piuttosto che su arbitrarie liste dei “buoni” e dei “cattivi”.

Roberto Della Rocca, rabbino