Fare poesia

Più volte, su queste stesse pagine, abbiamo commentato la celebre frase di Theodor Adorno, secondo cui, dopo Auschwitz, non sarebbe mai più stato possibile fare poesia. Abbiamo notato come tale frase, in un certo senso, si autosmentiva, dal momento che essa stessa suonava come poesia. E abbiamo ricordato come, soprattutto negli ultimi anni, emergano, dall’immenso naufragio, frammenti di voci di poeti, scritte nei ghetti di Polonia, Lituania, Ucraina. Frammenti miracolosamente scampati all’inabissamento, scritti da poeti che hanno voluto affidare a quei versi, negli ultimi giorni, una definitiva testimonianza. Nella speranza che fossero un giorno, ascoltati. O, magari, disperando che ciò potesse mai accadere. Versi che, naturalmente, chiedono imperiosamente di essere raccolti, custoditi per sempre. Ma abbiamo anche notato come la frase di Adorno, pur destinata a essere disattesa, conservi intatta una sua terribile forza di verità. La poesia è parola, e la parola stessa, ad Auschwitz, si è rivelata veicolo non solo di senso, di messaggio, ma anche di nulla, di silenzio. Di non senso.
A essere negata, dopo la Shoah è forse solo la poesia indifferente, la poesia del “tutto come prima”? Difficile dire, difficile distinguere. Ed estremamente difficile, comunque, resta anche il compito gravante sulle spalle di una possibile poesia “etica”, che si faccia carico del silenzio di Dio, o della morte della parola. Può esistere una “poesia del silenzio”? E, se esiste, quale il suo compito, il suo orizzonte?
Sono domande a cui cerca di dare risposta una poetessa e filosofa flegrea, Paola Nasti, in una intensa presentazione dell’epistolario tra Ingeborg Bachmann e Paul Celan (Troviamo le parole. Lettere 1948-1973, Edizioni Nottetempo, Roma, 2011), apparsa sul numero zero di una nuova rivista di poesia, Levania (Città del Sole, Napoli, novembre 2011): una testata che, ci pare, proprio nel difficile, obliquo rapporto tra etica e poesia cerca una delle sue principali fonti d’ispirazione.
“A leggere questo epistolario tra Paul Celan e Ingeborg Bachmann – scrive la Nasti – non può essere l’occhio curioso che si allunghi sulla storia di un amore impossibile. La storia di un amore che scorre sotterraneo lungo gli anni. Le poesie di Celan e Bachmann, come le lettere, parlano tutte da un silenzio soffocante. Un silenzio mai vuoto di parole; un prisma di molte facce che si chiamano: colpa; memoria; tenebra; straniero; canto; e sabbia, il tappeto di sabbia innumerabile degli sterminati. Un silenzio che non è frutto di scelta ma di imposizione. La colpa, sempre incombente, è non saper fecondare questa distesa di sabbia con la parola. La poesia, come le lettere di Bachmann e Celan, è contaminata e minata dalla colpa oscura dell’insufficienza della parola, dell’inadeguatezza di un dire che esce balbettando dal silenzio, con una meccanica di voce irrimediabilmente rotta. È il dire della poesia dopo Auschwitz. È la poesia dei tempi più poveri che l’umanità abbia mai conosciuto. Il tempo dilazionato fa impallidire la fuga degli dèi come un episodio malinconico istoriato su un vaso neoclassico. Il tempo dilazionato è quello del vaso in frantumi, polverizzato dall’orrore e dalla colpa. Allora non la poesia, piuttosto l’amore risulta impossibile…”.
“La speranza, struggentemente reiterata, è in una parola che ‘chiarisca ogni cosa, una volta per sempre’. Continuamente, si scusano l’un l’altro per le lettere mancanti: è un carteggio di epistole ritenute, mai spedite, o spedite dopo, a distanza di anni, fuori tempo massimo.
La poesia – conclude la Nasti – dice perentoriamente; anche quando balbetta, dopo Auschwitz. Ma nelle lettere, e nelle vite incarnate, questa resistenza della parola, a tacere come a parlare, prende corpo e alla fine evapora anch’essa. Con gli anni, le lettere tra Ingeborg e Paul lasciano il posto al fregio di esili dediche sul frontespizio delle opere: è l’utopia della letteratura che sopravanza il silenzio degli uomini”.

Francesco Lucrezi, storico