Qui Milano – Chiudersi, aprirsi, confrontarsi
Voglia di partecipare, in una sala del centro sociale Noam gremita e attenta fino a tarda sera. Desiderio di comprendere cosa accade nelle nostre comunità e di ascoltare la voce di rabbanim diversi che hanno offerto, ognuno dal proprio punto di vista, una chiave di interpretazione e una visione del futuro non necessariamente coincidente riguardo alla crisi del modello familiare e del modello comunitario. La comunità di Milano è tornata ad essere laboratorio di tutti i fermenti e di tutti i confronti che attraversano l’Italia ebraica raccogliendosi per guardarsi negli occhi. Non, o meglio non solo, la Comunità istituzionale, le persone che per scelta o lavoro si occupano dei suoi problemi tutti i giorni, ma soprattutto la gente, quegli iscritti che, vicini o lontani, troppo spesso sembrano difficili da coinvolgere nei momenti di confronto. Per l’incontro “Chiusura-apertura: famiglia ebraica, matrimoni misti”, organizzato dall’Ufficio rabbinico nel centro di riferimento della keillah persiana, ad ascoltare l’intervento di sei rabbanìm, il rabbino capo di Milano Alfonso Arbib, quello di Roma Riccardo Di Segni, il presidente dell’Assemblea rabbinica italiana Elia Richetti, il direttore del dipartimento Educazione e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Roberto Della Rocca, il padrone di casa, rav Yakov Simantov, e il rabbino Chabad Moshe Lazar, sono arrivate centinaia di persone, di diverso background, sensibilità religiosa, età (tanti i giovani che hanno scelto di partecipare). A testimonianza di quanto a tutti stia a cuore il tema, difficile, sofferto, scomodo del matrimonio misto, dell’approccio della Comunità al fenomeno, delle sue conseguenze. Il dibattito innescato negli scorsi giorni da una lettera del Consigliere comunitario Stefano Jesurum, in cui si discuteva di identità ebraica e di attitudine del rabbinato nei confronti del matrimonio misto, prendendo spunto dalla decisione di negare la supervisione di kasherut a un banchetto nuziale. L’intervento ha suscitato critiche. perché letto da alcuni come un attacco nei confronti del ruolo del rabbino capo, che ha deciso di rispondere con un documento scritto e con una serata pubblica. “Anche se quella lettera, lo devo dire con franchezza, mi ha creato tante difficoltà – ha sottolineato rav Arbib – penso sia positivo che ci troviamo ad affrontare pubblicamente un argomento di cui tutti noi parliamo, ma non apertamente: quello del matrimonio misto e dell’importanza di formare famiglie ebraiche. E ci tengo a sgombrare il campo da ogni dubbio: è un problema che riguarda tutta la Comunità. Perché una Comunità ebraica è una famiglia, dove le scelte di ogni singolo componente influenzano tutto il nucleo. Se non ci sono famiglie ebraiche, non ci sono bambini da educare e non c’è futuro per la Comunità”.
La discussione si è svolta in un clima di rispetto reciproco e grande attenzione. A introdurre gli interventi è stato rav Simantov che ha sottolineato come una comunità debba essere costruita su principi condivisi da tutti, e che questi principi siano necessariamente rappresentati dall’Halachah, “Solo i rabbini hanno l’autorità in materia halachica, che non può essere messa in discussione da chi rabbino non è” ha concluso.
“Mantenere i nostri valori è fondamentale. E le Comunità non dovrebbero rimproverare i loro rabbini per questa ragione. Consideriamo cosa sta succedendo alla famiglia in Italia”, ha esortato rav Di Segni, portando all’attenzione dei presenti dati statistici da lui raccolti, secondo i quali sia il tasso di natalità sia la percentuale di matrimoni ebraici celebrati sia quella di divorzi di fronte a un tribunale rabbinico costituiscono altrettanti fattori d’allarme riguardo alla consistenza numerica che in futuro potrebbero assumere le realtà ebraiche italiane. “Ci si sposa sempre di meno e sempre più tardi, nascono pochi bambini, si divorzia sempre di più Se pensiamo che le nostre comunità siano impermeabili a queste tendenze ci sbagliamo di grosso. Dobbiamo avere il coraggio di dire che oggi, una persona che sceglie di non formare una famiglia ebraica, mette in pericolo lo stesso futuro della Comunità”.
Dell’importanza del rispettare le regole ha parlato rav Lazar, evidenziando come la cultura ebraica sia basata sul comportarsi bene, prima che sul sentirsi bene. Mentre il presidente dell’Ari Elia Richetti ha affrontato nel suo intervento uno dei rilievi che più spesso vengono mossi al rabbinato italiano, quello di essere diventato più rigoroso rispetto al passato. “Penso di rappresentare la memoria storica di questa città e mi ricordo del tempo in cui c’erano anche molte famiglie non completamente ebraiche che partecipavano alla vita del Beth HaKnesset. Ma l’Halachah rappresenta un qualcosa in movimento, che sa adattarsi alle mutate condizioni della società. Alcuni anni fa, feci un esperimento, andando a verificare quanti dei bambini convertiti all’ebraismo vent’anni prima erano ancora iscritti alla Comunità: di 127 solo 20. Pur applicando l’Halachah, stavamo sbagliando qualcosa. E di questo abbiamo cercato di tenere conto”.
Ma un ammonimento contro l’idea di dare eccessiva importanza a statistiche e numeri è arrivato dal direttore del dipartimento Educazione e cultura dell’Unione, rav Roberto Della Rocca, che ha sottolineato il valore di ogni singolo ebreo, e della tradizione italiana. Tradizione che a fronte di realtà anche piccolissime che la matematica avrebbe condannato a sparire, è stata e continua a essere protagonista di un’intensa vita e rinascita ebraica. “L’ossessione delle statistiche, la conta dei numeri – ha denunciato il rav in aperta dissonanza con i toni di alcuni altri interventi – rischia di portarci fuori strada. Dobbiamo recuperare uno slancio, un’energia e un rispetto reciproco che sono proprio le qualità fondamentali che hanno consentito all’ebraismo italiano di vivere e di crescere”. Parole chiare sono arrivate anche riguardo al clima di tensione fra Comunità e rabbanìm. “Non si può arrivare a un incontro come quello di oggi come se si trattasse un match di laici contro rabbini. La tendenza a considerare il rabbino come un notaio è svilente per lui, così come chiedere delle conversioni facili è svilente per il gher, che deve entrare nella Comunità dal portone principale. E la Comunità deve essere prima di tutto pronta ad accoglierlo.
Tanti gli spunti di riflessione venuti dal pubblico: quale ruolo abbia la frequentazione della scuola e in particolare del liceo, nella formazione dell’identità ebraica, cosa possa fare la Comunità per assicurare la continuità dei suoi giovani, e cosa invece per coloro che se ne sono allontanati, quale debba essere il ruolo delle varie istituzioni, rabbinato, Consiglio, movimenti giovanili, per avvicinare gli iscritti, l’importanza di mantenere un clima di rispetto reciproco fra tutte le anime della Comunità.
Come chiarito da rav Arbib in apertura dell’incontro, non si poteva pensare di risolvere tanti e tali problemi in una sera. E tuttavia, probabilmente se la Comunità registrasse dei momenti di incontro del genere più spesso sarebbe sulla buona strada. Perché come ha sottolineato il presidente Roberto Jarach, aprendo gli interventi del pubblico “E’ molto positivo che questa serata si sia svolta, perché è questo che la Comunità chiede alle sue guide spirituali. Perché a Milano abbiamo una ricchezza di rabbanìm, di realtà ebraiche, di vita comunitaria che penso sia straordinaria. E l’impegno maggiore della Comunità è proprio quello della scuola e della casa di riposo, per dare continuità tra giovani e anziani, cercando di unire, senza per questo appiattire, le sue diverse anime”.
Rossella Tercatin – twitter @rtercatinmoked