Maggioranza e diritti delle minoranze

Continuano in tutta l’Italia ebraica i momenti di raccoglimento nelle sinagoghe e nelle sedi comunitarie per ricordare le vittime dell’attacco alla scuola ebraica di Tolosa. Nelle scorse ore, in attesa delle due grandi cerimonie di questa sera a Milano e Roma, ci si è ritrovati in molte altre città italiane: da Livorno a Napoli, da Casale Monferrato a Parma. Questa la testimonianza che ci arriva da Venezia.

“Una società civilmente democratica è quella nella quale la maggioranza si fa garante dei diritti della o delle minoranze”. Questo il fulcro del discorso che Amos Luzzatto, presidente della Comunità Ebraica di Venezia, ha tenuto durante la cerimonia ufficiale nella Sinagoga Levantina per commemorare le vittime della strage di Tolosa. Una cerimonia alla quale hanno partecipato molte autorità cittadine a dimostrazione che la questione della xenofobia è un problema che tocca e che coinvolge tutta la società e non solo i soggetti direttamente discriminati. Presenti in sinagoga il vice sindaco Sandro Simionato assieme al presidente del Consiglio comunale Roberto Turetta e al consigliere Beppe Caccia. In rappresentanza della Regione era presente il consigliere diplomatico del presidente Luca Zaia, Stefano Beltrame, insieme al collega Carlo Clini. Dopo la tefillah di Minchà, la preghiera del pomeriggio, Rav Gili Benyamin, rabbino capo di Venezia, ha recitato il salmo 79 in ricordo di Yonatan Sandler delle sue figlie Arieh e Gabriel, e di Miriam Monsenego, figlia del direttore dell’istituto scolastico. Di seguito riportiamo per esteso l’intervento del presidente Luzzatto:
“Desidero innanzitutto esprimere un sentito ringraziamento per tutte le pubbliche autorità, le forze politiche, i giornali che ci hanno espresso la loro solidarietà, la loro vicinanza, la loro amicizia per i gravi episodi antisemitici che hanno colpito sanguinosamente i nostri fratelli di Tolosa ma che, in forma di gravi minacce, non sono stati assenti neppure in Italia, Non siamo soli – e già questo ha per noi un importantissimo significato. Tuttavia, non basta.
L’esperienza non troppo lontana ci ha insegnato che l’incitazione all’odio antiebraico non si ferma mai alle porte delle nostre abitazioni e ha ricadute sull’intera società. Direi addirittura che proprio nei periodi di crisi come è quello che stiamo vivendo maturano le condizioni per nuove esplosioni antiebraiche.
La crisi non è soltanto economica e finanziaria, ma è anche una crisi sociale, culturale, crisi nelle relazioni interumane. E’ talmente profonda che non riusciamo neppure a esprimerla adeguatamente, neppure con linguaggio artistico, con proposte credibili, oserei dire neppure con moti di vera rivolta che un tempo costellavano la storia comune. È proprio in questi periodi che si manifesta più di frequente l’antisemitismo, quasi si liberassero forze oscure alla ricerca dei supposti colpevoli, per colpirli nella vana speranza di invertire, così facendo, il decorso degli eventi. Durante la peste di manzoniana memoria erano gli untori, che però non erano un gruppo ben definito e riconoscibile. Nella nostra società di oggi, di questi gruppi riconoscibili ne esiste più d’uno: basta ricordare i Sinti e i Rom, gli immigrati dal mondo ex coloniale, gli omosessuali e altri. Si tratta di gruppi minoritari, che di volta in volta vengono accusati di ogni nefandezza da parte della società. Tutti questi vengono accusati occasionalmente, ma gli ebrei sempre. Che sono sempre ben definibili per i loro costumi, la loro fede, la loro struttura comunitaria: e sono presenti come minoranza, al di qua e al di là dei confini, attivi nella società e pertanto sempre sospettabili; spesso attivi con successo e pertanto invidiabili. Candidati al ruolo non gradito di capri espiatori.
Ma il problema vero non sono però gli ebrei, è piuttosto la crisi e la difficoltà che le maggioranze nella società manifestano nell’analizzarla, capirla e sapervi trovare un rimedio. Ne deriva che l’odio antiebraico colpisce, certo, gli ebrei, ma interessa e non può non interessare tutti, anche coloro che ebrei non sono. È dunque uno dei grandi problemi politici del nostro tempo. Non “politici” nel senso elettoralistico ma piuttosto nel senso della struttura che intendiamo attribuire alla nostra società, in particolare al problema del rapporto fra maggioranze e minoranze nel suo seno.
La vita politica si fonda sul principio secondo il quale colui le cui proposte appaiono più ragionevoli ottiene la maggioranza dei consensi e governa. In pratica, gode del privilegio di poter decidere le scelte, in altre parole di avere costantemente ragione fino alla fine del mandato.
Quindi al principio “dato che hai dimostrato di avere ragione avrai la maggioranza”, si sostituisce un altro principio: “dato che hai avuto la maggioranza, ti si riconosce il privilegio di avere sempre ragione”.
E la minoranza o le minoranze? Ancora una volta sembrerebbe esserci, nel nostro sentire, una contrapposizione di principio, quasi che alla parola e al concetto di minoranza, dovesse necessariamente essere associato quello di minorazione.
Proprio nella nostra tradizione ebraica questo non vale. Nei dibattiti della tradizione talmudica è sempre riportata l’opinione della minoranza, con tutto il rispetto che merita. Tanto che, come ci ricorda il pensatore medievale Maimonide, e, ai nostri tempi, Yeshayahu Leibowitz, per decidere non sugli atti da compiere ma sui problemi di principio, non si procede per voto. E quando nessuna delle due opinioni prevale, ciò viene tramandato dalla parola caratteristica “tequ”, ossia la questione rimane aperta. Ciò significa che il testo che è giunto fino a noi ha rispettato e valorizzato l’opinione della minoranza, dandoci un insegnamento di principio.
Permettetemi di formularlo politicamente e con un auspicio per il futuro: una società civilmente democratica è quella nella quale la maggioranza si fa garante dei diritti della o delle minoranze.
È troppo? È un sogno? Oppure è l’unico modo per evitare di ricadere in una nuova barbarie, nella quali gli orrori del passato potrebbero impallidire rispetto alle nuove crudeltà? L’unico modo perché non prevalga quel distorto concetto di fratellanza per il quale, chi sia il fratello e chi non lo sia lo decide chi detiene il potere?
Crediamo fermamente che l’umanità non sia ancora destinata fatalmente a rinnovare le tragedie del passato e che il lutto recente possa servirci da monito per prevenire in tempo di imboccare questa china pericolosa.
Diciamo ebraicamente: amen, ken yehì ratzon”.

Michael Calimani