Melamed – Il linguaggio della verità

Il lunedi della scorsa settimana, in una bella giornata ormai quasi di primavera, l’atmosfera era pesante e lontanissima da quella che normalmente si percepisce durante un evento che raggruppa persone convenute da tutta Italia per confrontarsi e studiare insieme. La notizia dell’attacco alla scuola ebraica francese è arrivata subito, ovviamente. Dubbi, domande, paure, un’ansia sottile che si insinua nel profondo e che è difficile combattere con gli strumenti della razionalità. Il pensiero corre a casa, la memoria riporta a galla tutte le volte in cui non abbiamo dato peso alle indicazioni – sempre chiarissime – di non fermarsi davanti a scuola o alla sinagoga a chiacchierare, di non formare un gruppo proprio davanti al cancello…
Sull’onda dell’emozione e dell’angoscia erano queste le prime impressioni che si raccoglievano a Firenze, ove si svolgeva il quinto modulo del corso del Centro studi e formazione organizzato dal dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. In contemporanea si teneva il seminario di formazione degli insegnanti organizzato dal centro pedagogico del DEC ed è stato immediato, scambiando qualche parola dopo pranzo, all’aperto, notare come il sentimento dei numerosi partecipanti fosse rivolto ai bambini. Nel dolore per quelli che non ci sono più e con preoccupazione per i propri, e non solo: i dirigenti scolastici erano impegnatissimi, da tutta la mattina, a dare indicazioni allo staff, a confrontarsi con i colleghi su come affrontare questa nuova emergenza. E oltre alla gestione della sicurezza e alla ricerca di notizie il problema più pressante era: come possiamo spiegare quello che è successo? Come parlare ai bambini, cosa raccontare ai piccoli? È necessario farlo? Quando? Come?
Nei giorni successivi ‘ai fatti di Tolosa’, come spesso è stato chiamato l’attentato di lunedì alla scuola Ozar Hatorah, che ha ucciso quattro persone (forse gli adulti dovrebbero interrogarsi anche sulla propria paura delle parole?) l’argomento, anche in seguito all’indicazione di rispettare in tutte le scuole un minuto di silenzio “per onorare e ricordare le vittime della strage” è spesso tornato sotto l’attenzione di tutti. Le scuole francesi si sono fermate per un minuto martedì, e in Italia la stessa cosa è successa il giorno successivo garantendo de facto che a tutti i bambini, di tutte le età, in qualche maniera, fosse necessario raccontare quello che è successo. Il comunicato del Miur, indirizzato a tutte le scuole, è seguito ad uno scambio di missive intercorso con il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna in cui il ministro Francesco Profumo ha scritto parole importanti: “Mi accorgo una volta di più, in un momento tragico e triste come questo, di quanto il solenne ‘che non avvenga mai più’ sia appeso alla fragilità degli eventi e quanto forte e continuo debba essere da parte nostra l’impegno affinché non divenga una semplice frase di maniera.
Sono convinto che dobbiamo impegnarci a fondo, tutti insieme, contro la cultura dell’intolleranza, del razzismo e dell’antisemitismo in ogni sua forma, agendo con attività di prevenzione nelle famiglie, nei contesti sociali, e soprattutto nelle scuole, attraverso la formazione e l’impegno dei più giovani.”
Ed è proprio parlando del difficile lavoro fatto a scuola questa settimana, per raccontare ai ragazzi cosa è successo che Sonia Brunetti, direttrice della scuola ebraica di Torino, ha spiegato: “Ci siamo mossi su tre assi: abbiamo iniziato con l’ascolto, dando spazio ai ragazzi, per capire cosa già sapessero e come la loro famiglia avesse affrontato l’argomento. Alcuni erano ben informati, altri invece non sapevano nulla, siamo quindi partiti dalle loro domande per spiegare in maniera puntuale l’accaduto, facendo una estrema attenzione alle parole usate: evitando per esempio di parlare di attentato, ma usando il termine attacco e sottolineando come prendere per obiettivo una scuola sia un fatto gravissimo, perché va a colpire i bambini, che sono il simbolo del futuro, della crescita, della vita. Si tratta di un luogo importante, simbolo della parte più bella della società. Siamo poi passati alla tranquillizzazione affettiva, specificamente sulla scuola, chiarendo come ci sia una grande collaborazione con le forze dell’ordine: è la società tutta, lo Stato italiano che si occupa di proteggere i bambini, li accudisce. Far capire ai ragazzi che è la collettività a farsi carico della sicurezza è un passaggio molto importante, li fa sentire parte di una comunità. E qui si passa al terzo punto, che insiste sul rinforzare la loro fiducia, fiducia nella comunità, appunto, che si occupa di loro, che si occupa di sostenerli. Fiducia però anche nei propri mezzi, perché i bambini hanno bisogno di costruire – e di sapere di possedere – gli strumenti critici necessari a combattere le idee sbagliate. È importante chiarire che non si è trattato di un matto ma di una persona con le idee sbagliate, quelle idee che loro sanno riconoscere e stanno imparando a combattere. I più piccoli invece sono stati invitati a pensare a cose positive, belle, a ricordare che quando si è insieme si riesce a non farsi vincere dal male; il minuto di silenzio è stato importante per chiudere il discorso e dare il senso di un gesto collettivo”.
Alle scuole della Comunità di Milano le cose sono andate un po’ diversamente: appena saputo che le scuole francesi avrebbero rispettato un minuto di silenzio il martedì mattina è stato deciso di unirsi. Claudia Bagnarelli, responsabile della scuola dell’infanzia e della primaria ci ha raccontato come i bambini avessero capito che era successo qualcosa: “Non sono sciocchi, si sono resi conto subito, già lunedì, che qualcosa non andava, se non altro perché abbiamo immediatamente modificato i protocolli di sicurezza all’uscita. La prima cosa che abbiamo fatto è stata rispondere alle loro domande, anche perché se si fosse iniziato da una spiegazione fatta dagli adulti avremmo rischiato di porre problematiche o emozioni per cui non erano pronti. Abbiamo finito per rispettare tutti e due i minuti di silenzio, sia quello francese che quello italiano, cosa che ci ha anche permesso di verificare come i bambini abbiano reagito alle informazioni ricevute. Soffermandoci poi sul fermo del giovane marocchino che progettava di compiere un attentato alla sinagoga di via Guastalla abbiamo sottolineato come l’uomo sia stata arrestato, per dare in un certo senso un segnale positivo, per dire che comunque siamo protetti.”
Anche a Roma le domande dei bambini sono state immediate, all’uscita di scuola, diversa dal solito. Per Milena Pavoncello, responsabile delle elementari, nessuno è stato tenuto all’oscuro: “Già il giorno dopo tutti sapevano, e avevano bisogno di essere rassicurati. In particolare nella classe in cui insegno è stato interessante vedere come i bambini non ne parlassero ma ad una minima sollecitazione abbiano invece scritto e disegnato cose molto belle, significative, segno che comunque la necessità di esprimersi era forte. Hanno mostrato un grosso senso di maturità. Giovedì poi c’è stato un collegio docenti in cui abbiamo deciso di dedicare una classe alle vittime di Tolosa, la targa verrà scoperta in occasione della visita che il ministro Profumo farà alle scuole di Roma.”
Per la scuola di Trieste era una settimana molto impegnativa, in preparazione del grande spettacolo che ha visti coinvolti i bambini questa domenica, ma l’argomento è stato affrontato già il martedì mattina dalla direttrice Tami Misan, che ha parlato con i piccoli, raccolti tutti insieme subito dopo la Tefillah. “Alcuni non sapevano nulla, altri invece sapevano decisamente troppo, apparentemente avevano anche già avuto modo di ricamarci sopra, e comunque abbiamo notato una grandissima disparità di reazioni. L’approccio è stato diverso con i più piccoli, che abbiamo coinvolto solo in maniera molto sfumata, rispetto ai bimbi di quinta che invece si ponevano già molte domande, soprattutto sulla personalità dell’attentatore”.
A chiudere questa carrellata dalle scuole ebraiche ecco il parere di Odelia Liberanome, che come coordinatrice del Centro pedagogico del Dec conosce bene gli insegnanti delle scuole, che ritiene tutti preparati ad affrontare argomenti difficili, anche grazie ai corsi organizzati regolarmente allo Yad Vashem. “Il principio fondamentale è che venga trasmesso non il timore ma la vicinanza e la solidarietà. Se l’insegnante non riesce ad essere tranquillo e sicuro in quello che dice, il messaggio che passa è solo quello della paura, ma nelle nostre scuole i docenti sanno lavorare su certi argomenti, so che si ritrovano davanti a classi sensibili ai fatti del mondo che li circonda e i nostri ragazzi non hanno paura di confrontarsi anche con le domande difficili”.
Paola Milani, docente di pedagogia all’Università di Padova, esperta di resilienza, spiega che non si può nascondere ai bambini la verità: nonostante nella nostra società si tenda a nascondere la morte, a non portare i piccoli ai funerali, è impossibile pensare che questa sia una forma di protezione. “I bambini sono comunque a contatto con le emozioni degli adulti, bisogna costruire per loro e con loro il senso della verità. Il linguaggio delle verità – mi ripeto perché è importante – è comune a tutti e i bambini lo capiscono a qualsiasi età. Siamo di fronte ad un evento doloroso ed è giusto dire chiaramente che per noi è inspiegabile, si tratta di un fatto eccezionale e gli adulti non sono in grado di controllare tutto, a volte l’uomo è capace di queste cose. La sofferenza c’è, non ha senso nasconderla ma al contrario va individuata, deve essere nominata: va detto che tutti stanno soffrendo molto ed è importante dare ai piccoli il messaggio che l’adulto è in grado di riconoscere il dolore e di parlarne. Il fatto stesso che un adulto esprima il proprio dolore permette ai bambini la libertà di manifestare la sofferenza e la propria preoccupazione, è un passaggio fondamentale”.
Anche Patrice Huerre, psichiatra infantile francese, intervistato da Le Monde ha dichiarato che “ bisogna dire ai piccoli che è successo qualcosa di terribile. Non possiamo evitare di parlarne, neppure ai piccoli della materna. I bambini avranno di questa aggressione una percezione diversa a seconda della loro storia tenendo conto anche che fino ai sei anni la nozione della morte, o dell’assassinio, è del tutto teorica ed astratta ma che a quell’età sono ipersensibili alle emozioni degli adulti. A partire dai sei anni, poi, sono più attenti alle regole, alle cose vietate, ai concetti di bene e di male, si può dire loro che alcuni esseri umani sono spinti dall’odio, è una minoranza infima ma esiste, è inutile fare finta che non sia così. Non è il caso di dare troppi dettagli, per non traumatizzarli imprigionandoli in immagini violente, meglio dire che quando vorranno se ne potrà riparlare ma è importante impedire che si chiudano nel silenzio. E noi adulti dobbiamo sempre ricordare che piuttosto che diventare indifferenti è meglio essere umani, ed avere dei sentimenti, per dolorosi che possano essere”.

Ada Treves – twitter @atrevesmoked