Il trauma, il gioco

«Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior», cantava Fabrizio De André. A questo ho pensato visitando la mostra «Watanoha smile», ospitata a Palazzo Rospigliosi, nella sede del Museo del Giocattolo della città di Zagarolo. Vengono esposti i lavori dei bambini della scuola «Watanoha» di Ishinomaki, in Giappone, uno dei centri più colpiti dallo tsunami del 2011: si tratta di giocattoli costruiti con le macerie e i detriti della loro scuola, al momento ancora inagibile. Il progetto «Watanoha smile» (http://www.watanohasmile.jp/it/artwork.html) vuole infatti aiutare i bambini vittime del terremoto a superare il trauma attraverso il gioco; un’esperienza già testata in vari contesti catastrofici, ad esempio grazie al lavoro dei clown-dottori nelle tendopoli attorno all’Aquila. La novità straordinaria è però nella scelta del materiale con cui giocare: proprio le macerie, la prova dell’avvenuta tragedia. Una rappresentazione plastica di come le memorie, individuali e collettive, debbano necessariamente inglobare il male per superarlo, evitando meccanismi di rimozione o di minimizzazione del trauma. La mia sensazione è che noi adulti tendiamo a sottovalutare l’importanza dell’educazione per il futuro delle nostre società; a maggior ragione tendiamo a ridurne il significato quando questa si svolge con meccanismi informali, innovativi, quali appunto il gioco o la creazione artistica. Ma pensiamo, per esempio, a israeliani e palestinesi. Quali risultati avrebbe un investimento sull’educazione alla pace fatta con una prospettiva di lungo periodo? Quanti danni ha provocato al contrario – me lo ha fatto notare alcuni giorni fa Rav Alfonso Arbib – la scarsa attenzione che tutti noi abbiamo riservato a cosa è stato insegnato negli ultimi decenni ai bambini dei paesi arabi?
Se vogliamo fare qualcosa di utile, mi verrebbe da dire, impariamo dai bambini.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas