Davar Acher – Pesach

Siamo arrivati di nuovo vicini a Pesach, alla pulizia delle nostre case, all’acquisto delle provviste e all’organizzazione del seder. Di nuovo siamo chiamati dal nostro ciclo liturgico a riflettere sull’origine del nostro popolo, a far memoria sul fatto che la fondazione di Israele coincide con la sua prima persecuzione, che insomma la condizione che oggi noi nominiamo con il nome di Shoah non è un incidente storico ma una figura ricorrente: nella Babilonia di Daniele, nella Persia di Ester, nella Renania dei Crociati, nella Spagna degli Almohadi e poi dell’Inquisizione, nella Polonia dei Cosacchi, nell’Europa dei nazisti…
La narrazione biblica e quella della Haggadah contengono già molti dettagli di questa figura: i sospetti per la crescita economica e demografica; le persecuzioni crescenti, intese alla “soluzione finale” in maniera più o meno cruenta, i pochi giusti che non vi aderiscono (le levatrici); la crisi con l’intervento devastante della “mano tesa” dal cielo, in questo caso direttamente identificata con la responsabilità divina (“Io, non un angelo, Io, non un inviato…”), in altri casi emersa più ambiguamente dalla storia (i persiani per Nabucodonosor, Achashverosh per Aman, gli americani per Hitler, talvolta solo il tempo e la sopportazione…); la violenza, l’esaltazione e la paura del processo di liberazione; l’uscita dal paese verso la libertà.
Ogni anno siamo chiamati esplicitamente a sentirci parte di tale percorso, del cammino originario di Pesach; il che non può che significare dover rileggere il nostro tempo secondo quello schema. Il che non è difficile oggi, se sappiamo vedere che la nostra è un’epoca di frammentazione e di individualismo, in cui i processi storici si rifraggono. Da un lato noi viviamo in una situazione in cui l’Esodo si è compiuto, la liberazione è stata raggiunta, lo Stato di Israele è vivo e forte, anche se non mancano gli Amalek che vogliono la sua distruzione. Dall’altro il clima per chi è rimasto indietro in questo nuovo esodo e soprattutto per la collocazione dell’ebraismo nel mondo internazionale sempre più globalizzato, è assai pesante, le accuse si moltiplicano, gli atti di discriminazione aumentano, l’antisemitismo torna omicida, i governi sono indifferenti o ostili (soprattutto nell’Europa del Nord). E come ha scritto Dario Calimani in una nota pubblicata su questo sito che mi ha molto colpito, è difficile sentire una solidarietà autentica del proprio ambiente quando si viene presi di mira personalmente.
La ripetizione stanca, rischia di suggerire passività e indifferenza. Il “figlio malvagio” della Haggadah, quello che chiede da estraneo qale sia il senso “per voi” del rito, forse è semplicemente stanco, cerca di sottrarsi alla ripetitività di questa figura storica che ci cattura ogni volta di nuovo. Ma è ancora la ripetizione, la costanza, la permanenza della memoria, il solo antidoto a questa stanchezza. Potremo vincere la stanchezza e la paura solo riuscendo a pensare che noi oggi come i nostri avi tremila anni fa siamo impegnati nel percorso di liberazione, che buona parte del nostro popolo ha già avuto il coraggio di entrare nel mare, che tante volte i cocchi del faraone e dei suoi emuli sono stati sommersi, solo essendo consapevoli del fatto che comunque abbiamo ancora un compito in questa storia, proprio noi, che dobbiamo ripeterla per sapere come viverla e viverla ancora, lottare ancora in essa, per poterla ripetere noi e i nostri figli.

Ugo Volli