Onorare Stefano, impegno di tutti per tutelare l’Italia

Perché Stefano Gaj Tachè – il bambino ebreo ucciso a Roma il 9 ottobre 1982 da parte di un commando palestinese – non viene inserito nella lista delle vittime del terrorismo politico, ricordate ogni 9 maggio? Perché non si dà seguito a una proposta saggia, giusta, persino ovvia? Ritengo che le ragioni di questa esitazione siano fondamentalmente tre. Primo. La burocrazia può essere straordinariamente ottusa e feroce: senza scomodare «Il processo» di Kafka, è noto quanto cavilli e moduli possano essere spietati. Lo sanno bene, per restare nelle vicinanze, le vittime del nazifascismo che avevano diritto all’assegno di benemerenza, che per ottenere giustizia hanno dovuto attendere quasi 50 anni.
In secondo luogo il piccolo Stefano si trova per caso in una vecchia diatriba, quella che distingue tra le vittime del terrorismo e della criminalità organizzata. Fino all’assurdità per cui Falcone è morto per terrorismo, gli agenti della scorta di Capaci per mafia. Con una disparità di trattamento economico, pensionistico e anche di riconoscimento civile (medaglia d’oro solo alle vittime del terrorismo). È evidente che Stefano non c’entra nulla con ciò, ma la polemica spiega la timidezza delle istituzioni a smuovere una materia tanto delicata.
Infine esiste una ragione politica. Molti affermano che esistesse in Italia un accordo implicito tra Governo e Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), che garantiva il transito dei terroristi palestinesi purché questi non commettessero stragi in Italia. Un accordo di non si può certo andare fieri. Ora, è evidente che l’attentato del 1982 segnò il fallimento di questa presunta strategia, attaccando e uccidendo cittadini italiani di origine ebraica. Inserire Stefano nella lista delle vittime del terrorismo significa, implicitamente, riconoscere le responsabilità storiche e politiche dello Stato italiano, che vanno prima studiate e poi opportunamente distribuite. E forse è proprio questo il passaggio che si vuole evitare. Ma un paese che non fa i conti con il proprio passato è un paese che non ha futuro. È per l’Italia, oltre che per Stefano e la sua famiglia, che questa battaglia merita di essere combattuta.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas