Il canto di Pesach
La mia vita ha preso un piega talmudica. Un amico, che sa che ho avuto un’educazione religiosa, mi ha convinto a lavorare su una nuova traduzione dell’Haggadah (“The New American Haggadah”) – il libro che si usa nelle case ebraiche per raccontare, ogni anno, la storia dell’Esodo, durante la cena rituale che ha luogo le sere di Pesach. Ci ha messo molto a convincermi: sono stato – e per lungo tempo – orgogliosamente e radicalmente laico. Come però succede a tutto il resto della mia famiglia, che è profondamente osservante, una volta che mi prendo un impegno o è una scelta assoluta oppure è un fallimento. Se mia madre fosse un tipo da tatuaggi sulla sua schiena si leggerebbe “Nata per Essere Ascetica”. L’estremismo di mia sorella si manifesta durante le pulizie di Pesach. È vietato avere anche solo una briciola di chametz (in pratica qualsiasi cosa sia lievitata) in casa durante la settimana della festa. Per lei (che ha cinque figli) questo significa fare le pulizie davvero a fondo, il risultato è una cucina così pulita che si potrebbe usare per fare operazioni a cuore aperto così come dei kneidelach che andrebbero bene per qualsiasi certificazione di kasherut. L’unico modo per avere una casa più pulita sarebbe bruciarla. Nel mio caso l’indole ossessiva ha trasformato quello che doveva essere un progetto divertente e di breve durata in una casa traboccante di testi religiosi, un compagno di studi con cui discutere sulla scelta di ogni singola parola e ore innumerevoli di lavoro compulsivo – e un altro anno è passato. Oltre ai famosi manoscritti medievali – come la Haggadah di Sarajevo o la Bird’s Head Haggadah, tedesca, di rito askenazita, che risale al 1300 – ci sono versioni adatte a davvero qualsiasi tipo di Seder. Ci sono edizioni femministe, una versione vegetariana per “The Liberated Lamb”, esiste “The Anonymous Haggadah” per gli Alcolisti Anonimi, ce n’è una per le Forze armate degli Stati Uniti, e la liturgia di Santa Cruz, che è “neutra dal punto di vista delle differenze di genere e non contiene il nome di Dio” e una Facebook Haggadah che termina minacciando di trasformarsi l’anno prossimo in una versione Twitter (cercatela voi stessi su Google). L’Haggadah ci consiglia di avventurarci e imparare, ma quando si tratta di fare una scelta liturgica io non vado lontano. Ho scoperto che non c’è nessuno più ferocemente tradizionalista di un ebreo che si era discostato momentaneamente dalla tradizione, e mi sono ritrovato a inorridire quando ho scoperto che non c’era più un antico indovinello in ebraico nella versione che stavo usando come guida (non preoccupatevi, l’ho rimesso a posto). E in tutto questo meditare e discutere, in mezzo ai ragionamenti sulla prosa biblica, mi sono spesso ritrovato a ricordare, un piacevole effetto collaterale che non mi aspettavo. Mi è tornata in mente la ricerca rituale del chametz, la sera prima della festa: un ragazzino in un seminterrato buio, al fianco di suo padre, con una candela in una mano e una piuma nell’altra, pronto a raccogliere ogni briciola dimenticata. Mi sono ricordato gli anni in cui Pasqua e Pesach si sovrapponevano: la volta che camminando verso la nostra sinagoga alla periferia di Long Island, io vestito con un minuscolo completo e la kippa, abbiamo incrociato il Coniglio Pasquale su un camion dei pompieri, con il pompiere volontario travestito da coniglio che salutava tutti. Ricordo che veniva da ridere a noi, mia sorella mio padre e io, e anche al pompiere. Un senso di dolcezza che non si era perso: vestiti per Pesach o travestito da coniglio, i pompieri nelle loro uniformi e io nella mia, un riconoscersi fra differenti riti e diverse cerimonie che formano una città. Anche i nostri rituali casalinghi erano parecchi: mi ricordo il sottrarre e il nascondere l’afikomen durante i Seder infiniti (una tradizione creata apposta per tenere svegli i bambini). Mi ricordo delle giornate in cui si preparava il Seder, il pesante mortaio di ottone, e il pestello nella cucina satura di vapore, e i piatti – i piatti della mia bisnonna, usati due sere all’anno per più di un centinaio di anni. Il vino messo a decantare nelle caraffe, il sale in salini di filigrana d’argento. Noi non eravamo così, tutto il resto dell’anno usavamo stoviglie bianche, semplicissime. In queste due notti, però, ricordando la schiavitù, dovevamo celebrare come se fossimo re, i poveri seduti insieme ai principi, tutti sullo stesso livello. Mi ricordo le erbe amare, tutto il rafano che veniva mangiato, e posso ancora vedere i volti degli adulti che diventavano rossi. Mi ricordo le uova servite nell’acqua salata. E mi ricordo di tutto il vino dolce che ho bevuto, e di un ragazzino ubriaco che scivolava sotto il tavolo, cosa che posso raccontare ma non ricordare. E mi ricordo – uno strano pensiero nell’anno della morte di mio padre – che a parte mia madre mia sorella e io, tutti gli altri convitati se ne sono andati. Le singole sere di Pesach si mescolano ora in ricordi piacevoli di parenti scomparsi da tempo. Quello che mi ricordo meglio, però, quello che resta più vivido nella mia memoria, è la Haggadah stessa – parole e ritmo, che ho riprodotto nella mia traduzione:
Se le nostre bocche fossero colme di canti come il mare, /E le nostre lingue inondate di canzoni, numerose come le onde / E le nostre labbra ampie di lodi come ampli sono i cieli, / E i nostri occhi luminosi come la luna e il sole,/ E le nostre mani aperte come aquile dei cieli/E i nostri piedi come veloci e agili cerbiatti/Ancora tutto questo non sarebbe sufficiente a ringraziarti…
Nello studiare questo racconto, costruito intorno all’idea stessa di memoria, mi sono reso conto di come parli anche del futuro. Sono tempi, questi, di grande incertezza. Anche il sogno di tornare a Sion “con bocche spalancate dal riso, e lingue cosparse di canti di gioia” ci porta a una terra di muri e di guerra. È allora bello allontanarsi dalla traduzione con la sensazione che la Haggadah sia centrata sulla promessa almeno quanto sul salvataggio. Come dicono gli ultimi versi del salmo da cui provengono anche le righe riportate prima:
Perché coloro che seminano nel pianto, con gioia mieteranno./Avanza il viandante in lacrime, portando il sacco di sementi; /e avanza colui che viene, nella gioia, portando il suo raccolto.
Nathan Englander
(The New York Times, aprile 2011, versione italiana di Ada Treves)