Primo Levi e il lungo addio al Novecento
A 25 anni dalla scomparsa di Primo Levi. Molte in Italia e nel mondo le iniziative dedicate al grande intellettuale ebreo torinese in occasione di questo significativo anniversario. Dal simposio internazionale in quattro giorni da poco conclusosi a Roma alla pubblicazione da parte di Einaudi di una nuova edizione (a cura di Alberto Cavaglion) di Se questo è un uomo. Si è svolto inoltre nelle scorse ore, al Memorial de la Shoah di Parigi, un grande convegno dal titolo Primo Levi, l’Uomo, il Testimone, lo Scrittore. Tra i prossimi appuntamenti, domenica 6 maggio alle 16 nella sede della Comunità ebraica di Torino, un incontro di studi che approfondirà il legame dell’autore con le proprie radici.
La figura e l’opera di Primo Levi, a 25 anni dalla morte, costituiscono un passaggio essenziale per riflettere sulle passioni del Novecento, ma anche su ciò che il Novecento ha lasciato in eredità a questo XXI secolo. Venticinque anni fa moriva Primo Levi. Ci saranno molte occasioni e appuntamenti nelle prossime settimane per riflettere sull’attualità o sulla distanza che avvertiamo con la sua figura e con la sua scrittura. Probabilmente molti insisteranno a partire da una ricezione difficile, contrastata, comunque problematica di Se questo è un uomo (oppure dai temi di che costituiscono I sommersi e i salvati) intorno alla storia della Memoria, sulla lenta difficile e contrastata questione del rapporto su letteratura e testimonianza, con particolare riferimento al caso italiano. E’ un tema pertinente, certamente centrale nella fisionomia di Primo Levi con tutto ciò che ne consegue in termini di storia di una scrittura, di rapporto tra impegno, presenza e riflessione pubblica. E, infine, tra elaborazione della propria esperienza e riflessione su ciò che di essa rimane. Si potrebbe osservare anche se con apparente spessore più stretto come altre scritture abbiano avuto un identico destino nel corso del Novecento. Anzi come per esse oggi sia suonata una triste ora di oblio, come se per davvero esse appartenessero a un tempo che non è più il nostro. Penso, tanto per fare due esempi, anche solo limitati alla letteratura italiana a L’orologio di Carlo Levi o a Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu. Due opere in cui il rapporto tra entusiasmo ed elusione, o tra progetto e sconfitta (penso a Carlo Levi) o la carneficina della guerra, la morte inutile, il senso di smarrimento (come nel caso di Lussu) sono parte indubbiamente della “qualità” della vita (e della morte) alla data di oggi. Due opere, tuttavia, che sono oggi completamente marginalizzate nella lettura e nella memoria collettiva. Tuttavia, questo approccio, certamente capace di proporre una lettura universalistica di Primo Levi, credo che alla fine metta in ombra altri aspetti della riflessione civile del celebre intellettuale torinese. Per essere più precisi: la fisionomia di una riflessione civile che non è connessa alla Memoria ma alle problematiche inerenti la qualità della nostra vita quotidiana, ora. E che, perciò, debba rileggere quel rapporto con la memoria, provando a scegliere questo secondo percorso. Una riflessione che da quell’esperienza si diparte – ovvero per essere espliciti che ha diretta connessione con la questione di Auschwitz – ma che non è unicamente la Shoah. Primo Levi è una figura universale non solo per l’esperienza che ha vissuto, ma soprattutto per il carattere che ha dato alla sua riflessione pubblica in relazione a quell’esperienza. Una riflessione che non riguarda solo i temi, ma anche la capacità di porre questioni che in questi 25 anni sono continuate ad essere rilevanti. Venticinque anni fa, al momento della sua morte, ancora non erano delineate quelle condizioni di “addio al Novecento” che oggi a noi sembrano molto chiare. Ne cito alcune: la fine del lavoro industriale; il senso del lavoro manuale; la rilevanza che è venuta assumendo la questione della Memoria; lo sconvolgimento degli assetti e dei poli di attrazione politica, sociale, culturale, ossia il tramonto della Guerra fredda; la nascita incerta dell’Europa. E nel panorama italiano: la crisi dell’antifascismo; il degrado della lingua; la fine della “provincia”; il rapporto inquieto con le culture locali. A lungo Primo Levi ha ragionato “da solo”, nell’Italia della ricostruzione e del boom industriale, sulla sua esperienza tragica, sul senso pubblico e civile di quella riflessione, quei temi hanno avuto un peso rilevante in relazione alla qualità del suo interrogare il suo presente di allora, e hanno un peso anche ora. Allo stesso tempo quella riflessione non era disgiunta dalle incertezze del proprio tempo, dalle domande e dalle inquietudini di un Paese che doveva fare i conti con il passato, trovare il senso della propria continuità, misurarsi con le trasformazioni sociali ed economiche indotte dalla modernizzazione. Dentro alla riflessione e alla scrittura civile di Primo Levi si intrecciavano così non solo le questioni della Memoria, ma anche quelle riferite al profilo di un Paese alle prese con la sua metamorfosi e impegnato a confrontarsi con le passioni che hanno attraversato l’Italia tra anni Cinquanta e anni Ottanta. Quelle stesse passioni stanno ancora davanti a noi. Si tratta di definire quale sia la funzione pubblica dell’intellettuale o, più generalmente, dello scrittore civile rivendicando soprattutto la sobrietà, la didattica della riflessione sommessa e paziente. Di comprendere cosa significa riflettere sul lavoro e la sua qualità in un’epoca fortemente segnata dal suo degrado e che l’esperienza concentrazionaria aveva così radicalmente contribuito a svilire. Di capire cosa e come si produca la Memoria in unì’epoca in cui la terza età e l’affermarsi della quarta età inducono a riflettere intorno alla coabitazione ella comunicazione tra generazioni. Si tratta infine di riflettere su che cosa siano la cultura e i tratti del carattere locale e che cosa significhi continuità e innovazione e quale sia il rapporto e come coabitino sapere scientifico e sapere umanistico a fronte di un rapporto polarizzato. Come si ricostruisce la propria autobiografia culturale e dunque quali siano le molte sinapsi che si attivano. Senza dimenticare, peraltro, che accanto a quei temi stava la Memoria della propria esperienza tragica, del confronto drammatico e talora affaticato con altri che con quell’esperienza si sono misurati. Ma questo appunto stava in un reticolo ed era parte di un costrutto, senza definire una struttura gerarchica di cause, effetti, di centro e di periferie. Non varrebbe perciò la pena cogliere quest’opportunità e provare ad aprire – se non timidamente almeno sommessamente – quel cantiere di riflessione pubblica che Primo Levi ha in una forma precisa delineato e lasciato in eredità?
David Bidussa, Pagine Ebraiche, aprile 2012