Tea for Two – Malinconico panino
Pesach è finito e per eternare il momento mangerò, come direbbe il mio amico Giuseppe, un ‘paninazzo’. Uno di quelli di tutto rispetto, come un club sandwich, trovando qualcosa che sostituisca bacon e pancetta. La festa della libertà, delle parole, del racconto, è sempre stata la mia preferita, fin da quando ero io la deputata a cantare timidamente Ma Nishtanà. Mi piace fin dalla sua preparazione. Amo il periodo di pulizie che trasforma la mia abitazione in un delirio totale: un mix pericoloso di detersivi, buste della spazzatura, carta, scotch e guanti di gomma. E con l’avvicinarsi maestoso della festa la cucina viene ricoperta di carta argentata e sembra di essere a casa di Andy Warhol. Poi i dubbi amletici: “il fondotinta è chametz?” “Nel dubbio buttalo, ma dove è finito il manuale salvavita di Pesach?” Attenzione, attenzione il countdown è iniziato, mandate giù l’ultimo pezzo di pizza unta e deliziosa. Ed è come l’ultima sigaretta per Zeno Cosini. Si tratta solo di una settimana, eppure gusti con ogni singola papilla. Non c’è tempo da perdere, bisogna fare la ricerca del chametz. Quindi armati di candela e in pigiama cominciamo a setacciare le stanze con la perizia di Jessica Fletcher quando indaga su un nuovo assassinio. Non mi sfuggirete, vi troverò tutte!! Sai esattamente dove sono le briciole, ma c’è del pathos in tutto ciò. Vendere il resto, chiudere armadi con un minaccioso foglio che avverte “ATTENZIONE NON APRIRE” e dalla Signora in giallo passiamo ad un horror in stile Non aprire quella porta. Poche ore ci separano dal seder, c’è un fuggi-fuggi generale per portare a termine le ultime mansioni. Chi corre a comprare i fiori per rallegrare la casa lucida e compiaciuta sentendosi Mrs Dalloway, chi finge di studiare ripetendosi che tanto di moed i libri sul Rinascimento non si apriranno di certo, chi mette a punto il menù per la cena. Arriva il seder e con questo appaiono dei personaggi che ci faranno compagnia per giorni: la matzà e la tavola apparecchiata per un numero di commensali maggiore del solito. Se con la matzà abbiamo un rapporto conflittuale: “Perché non ha fatto in tempo a lievitare? Perché??” e nonostante questo ci ritroviamo a ingurgitarla continuamente in maniera quasi ossessiva, la tavola imbandita mi rallegra. Ho maturato negli anni una insana passione per i pasti condivisi con tante persone, amo addirittura essere scomoda, avere il posto che corrisponde alla gamba del tavolo, correre il rischio di mangiare nel piatto del vicino per quanta poca distanza di sicurezza ci sia. Ho la passione smodata di ascoltare i tre o quattro discorsi che il tavolo sta facendo in contemporanea e dare la mia opinione non richiesta su ognuno. Poi il seder finisce e parte la gara: chi canterà Uno chissà e Un capretto più velocemente? C’è qualcosa di terribilmente rassicurante in questo. Siamo intorno a un tavolo, ognuno con la sua storia personale e in questo momento in altre centinaia di case sta avvenendo la stessa cosa. Dietro e dentro ogni commensale ci sono preoccupazioni, desideri, c’è magari chi ha voglia di alzarsi e anche chi aspetta tutto l’anno per bearsi di quel momento. Fossi in Orazio salterei sulla sedia e inciterei con un Carpe diem ma trattengo la megalomania e sorrido. Seguono i giorni di moed. Che per quanto siano denigrati permettono azioni che non crederesti mai di fare preso come sei dal flusso degli eventi: guardare foto e commentare la propria fase babuino (la mia è stata dai nove ai quattordici anni e ogni tanto subisco ricadute), leggere libri che aspettavano pazientemente da mesi il loro turno e si erano oramai arresi a fare le ragnatele e non vedere mai la luce. Allora il panino ricco come come Kubla Kahn adesso lo mangio, ma con un’abbondante dose di malinconia saluto Pesach, la mia parentesi un po’ folle e non lievitata.
Rachel Silvera, studentessa