… blackout

L’anziana impiegata, immigrata una vita fa dal Meridione, tira fuori dalla tasca del tailleur disegnato da lei stessa, che da giovane voleva fare la stilista, “ma papà disse che quello non era un mestiere” un fazzolettone rosso e lo sventola a ritmo di marcia mentre compagni dai campi e dalle officine risuona vigoroso. Finita la musica, lo piega meticolosamente e lo ripone in tasca. Si potrebbe riassumere con questa scena tutto il memorabile spettacolo Settimo, la fabbrica e il lavoro scritto e diretto da Serena Sinigaglia, che ha debuttato al Piccolo Teatro Studio di Milano quest’inverno ed è ora in tourné nelle maggiori piazze italiane. Si potrebbe farlo, ma sarebbe un peccato perché lo spettacolo è puro godimento, dall’inizio alla fine. Scritto magistralmente utilizzando 34 video interviste realizzate nello stabilimento Pirelli di Settimo Torinese, il testo racconta la complessità, la fatica, la ricchezza, la monotonia, la solidarietà e molti altri aspetti ancora della vita in fabbrica. Tutto alla luce della fine di un’era. La classe operaia andrà forse in paradiso, ma siamo sicuri che il paradiso esista ancora? Quel che sospetto è che non esista più la classe operaia. Almeno non quella dei fazzoletti rossi. La scena del sindacalista con il biglietto da visita basterebbe a fugare ogni dubbio in merito. La fabbrica muore, ma l’operaio rimane.. Che cosa farne? Gli immigrati continuano a raggiungere le nostre città, chiedendo lavoro: come impiegarli? I giovani si laureano e lavorano in un call center, precari. Una filosofia orientale ci viene in soccorso, consigliandoci di eliminare il superfluo, concentrarci, fare pulizia. Lo spazio scenico è ormai invaso da copertoni che sembrano tanti sacchi neri dell’immondizia, quindi il saggio potrebbe aver ragione. Raccolti i vecchi pezzi di gomma, ormai inutili, resta l’idea creatrice: la specializzazione. Certo: non tutti troveranno posto nella nuova industria di alta qualità e poca manodopera, ma c’è scelta? Non è una domanda retorica. Di retorica in questo spettacolo non ce n’è l’ombra. Le ombre, meravigliose, sono quelle dell’impiegata e del giovane aspirante operaio proiettate sul muro a mattoni dalla torcia elettrica durante il blackout. Perché è un blackout a segnare il punto di svolta della vicenda. L’importante è che il processo di produzione non si arresti mai: la fabbrica lavora sette giorni 24 ore, grazie agli immigrati che hanno scoperto che offrendosi volontari per i turni di notte e di festa riescono ad arrivare a fine mese e a far studiare l’unico figlio che si sono permessi di mettere al mondo. La dignità del lavoratore, ancor prima di quella del lavoro, è ciò che mi porto a casa questa sera.

Miriam Camerini, regista