Il Maestro Gillo Dorfles,una vita contro il cattivo gusto
L’ uomo che ha insegnato agli italiani che cos’è il kitsch, il pessimo gusto che pervade l’arte, gli oggetti e il nostro vivere quotidiano, non accenna ad abbassare la guardia. A 102 anni portati con un velo di civetteria e a quasi mezzo secolo dal suo fondamentale saggio sul kitsch che segnò una svolta nella percezione del contemporaneo, Gillo Dorfles, vulcanica figura di intellettuale che ha attraversato da protagonista il Novecento, mantiene uno sguardo attento e colmo d’ironia sul mondo. “Usciamo da un decennio che è stato assolutamente dominato dal kitsch: nei gesti, nel modo di vestire e di atteggiarsi, nel comportamento di certa classe politica – riflette. – Ora mi sembra ci si stia avviando verso un periodo improntato a un maggiore rigore”. Ma chiedergli una parola di ottimismo sul futuro è inutile: l’unica risposta è un sorriso svagato, tra il tagliente e il distratto. Il professore ci riceve nella sua casa milanese in pieno centro, affacciata su una piazza punteggiata d’alberi e panchine. L’appartamento silenzioso è immerso nella penombra e colmo di libri ammucchiati con ordine in ogni dove: sui tavoli e i tavolini, sulle sedie e perfino sul pavimento. Bastano pochi minuti per abituare lo sguardo a rendersi conto di essere circondati da veri tesori d’arte: in primo luogo i quadri dello stesso Dorfles per cui la pittura è ancora oggi pratica e passione quotidiana.
Professore, che cos’è il kitsch?
La parola non esiste da molto in Italia, mentre in Germania è piuttosto comune. In tedesco viene probabilmente da termine pferkistchen che significa pasticciare. In italiano la si potrebbe tradurre con triviale, pacchiano. É un concetto che indica il cattivo gusto. Un tratto assai più universale del buon gusto.
Qualche esempio di kitsch?
E’ kitsch un certo folklore. Ad esempio le statuine con la gondola veneziana o la Sirenetta di Copenhagen. Negli Stati Uniti la patria del kitsch è Las Vegas con le sue ricostruzioni fasulle di ambienti ed epoche storiche. Ma anche la moda può essere di pessimo gusto, quando abbina colori improbabili, sovrabbonda di ornamenti. Kitsch può essere però anche il modo di portare un abito bellissimo.
Cosa ne pensa del gusto nel vestire delle nuove generazioni?
In un certo senso l’individualismo è azzerato: tutti vogliono gli stessi jeans, la stessa maglia, il piercing, l’orecchino o i tatuaggi. Ma non direi che andiamo verso il peggio: la moda italiana versa ancora in ottime condizioni.
E nel campo dell’arte?
Vi sono molti artisti kitsch, tra cui alcuni molto buoni. Tra gli esempi citerei Baj e il suo uso esagerato di decorazioni o medaglie. O gli esponenti della pop art americana. La stessa critica d’arte può essere molto kitsch, ma preferirei non citare nessuno.
Come si riconosce il kitsch?
Dipende dal proprio gusto. Se si ha cattivo gusto non si capisce nulla e non c’è molto da fare. Tutto dipende dalla propria sensibilità, dalla cultura, dall’ambiente cui si appartiene e dalla capacità di guardarsi intorno.
È una capacità che si può insegnare?
Senz’altro. I bambini hanno una tendenza istintiva verso l’arte ma se non sono guidati bene rischiano di non sviluppare alcuna sensibilità in questa direzione. Si può dunque iniziare fin dall’asilo a mostrare ai bambini che cos’è il buon gusto facendo vedere loro importanti opere d’arte. In questo senso la scuola può essere molto utile.
Negli anni Cinquanta lei fu tra i fondatori del Movimento arte concreta insieme a Bruno Munari, artefice di una sperimentazione ancora molto attuale nell’educazione all’arte dei più piccoli. A che punto siamo oggi?
Si dovrebbe fare molto di più per avvicinare i bambini alla dimensione artistica. In altri paesi l’attenzione è molto più accentuata. In Svizzera ho visto ad esempio scuole elementari con quadri di Klee e di altri autori appesi alle pareti. Qui da noi sarebbe inconcepibile. Eppure ogni volta che i bambini sono stimolati nella loro creatività si ottengono risultati bellissimi. Ricordo che alcuni anni fa vi fu una mia mostra a Palazzo reale a Milano. Si organizzarono dei laboratori per le elementari e al termine vennero esposti i disegni dei bambini. Le posso garantire che erano molto più belli dei miei e che gli alunni avevano capito e interpretato con intelligenza tutto ciò che avevano visto. Vi è dunque un potenziale naturale che andrebbe sviluppato con una giusta educazione. Oggi siamo ai minimi termini, dal punto di vista pedagogico, ma non bisogna rassegnarsi.
Lei è nato a Trieste, da cui se n’è andato bambino per tornare negli anni del ginnasio. Allora la comunità ebraica locale rivestiva un ruolo significativo. Qual è il suo ricordo?
Frequentavo molti personaggi legati alla Trieste ebraica, a quel tempo molto importante dal punto di vista culturale. Ricordo Italo Svevo, Umberto Saba e quel grande intellettuale che fu Bobi Bazlen, amico che continuai poi a vedere anche negli anni milanesi. A Trieste il mondo ebraico conviveva con la comunità greca, con quella serbo ortodossa e slovena e proprio questa diversità di radici e di culture era all’origine delle fortune di quella città. A Trieste allora era del tutto normale parlare due o tre lingue …
Lei vive a Milano ormai dagli anni del dopoguerra, ma torna spesso a Trieste. Come trova oggi la città?
È stata abbandonata dall’Italia e oggi ha quasi perso quel tratto che ne faceva una realtà tanto particolare. Pensiamo, solo per fare un esempio, a ciò che è successo ai collegamenti ferroviari. Sono stati progressivamente ridotti fino a isolarla dal resto dell’Italia: oggi ci vuole più tempo per spostarsi fra Venezia e Trieste che tra Milano e Roma.
C’è il progetto dell’Alta velocità che potrebbe ricollegarla al resto d’Europa.
La linea Lione-Zagabria è a dir poco fondamentale: per Trieste e per il Nord est poter contare su questa tratta è una necessità vitale.
E Milano? Com’è cambiata?
È ancora uno dei centri della cultura italiana, anche se certo vi sono città molto più belle e piacevoli. Nel tempo si è modernizzata, anche se forse non ancora a sufficienza. Oggi per fortuna si sta costruendo in molte zone, anche centrali come Porta Garibaldi: andava fatto cinquant’anni fa. Non si capisce perché certe aree sono rimaste vuote così a lungo.
Parliamo di musei. Roma ha visto nascere di recente il Maxxi e il Macro, dedicati all’arte contemporanea. Da questo punto di vista Milano sembra segnare il passo.
È semplicemente una vergogna che Milano non abbia un museo d’arte contemporanea e che un’opera come il Maxxi sia stata realizzata a Roma. Non solo. Milano è la capitale del design internazionale, ma non ha ancora un museo dedicato a questa sua specialità. Sarebbe ora di provvedere anche a questo.
Il design italiano gode ancora di buona salute?
Certamente. Ancora abbiamo il miglior design del mondo con oggetti simbolo che il mondo ci invidia.
Qualche esempio?
Mi astengo per non rischiare di dimenticare qualcuno.
Cosa ne pensa di un’esperienza di design “democratico” come Ikea? Non rischia di provocare un’eccessiva omogeneizzazione del gusto: mobili a portata di tutte le tasche e tutti uguali per case sempre più simili l’una all’altra?
Il modello Ikea non è affatto negativo. Lo stesso concetto di supermercato contiene in sé un forte potenziale culturale: l’importante è che i mobili siano attuali e che non ci sia alcuna imitazione dell’antico, tentazione oggi per fortuna sempre più remota.
Lei si è laureato in medicina. Ha mai esercitato?
No. L’idea di fare il medico in gioventù mi attirava molto. Ma una cosa è studiare, un’altra confrontarsi con i malati: temo sarei stato la loro rovina.
Si è specializzato in psichiatra. Una scelta quasi irresistibile allora a Trieste.
La città ha avuto un ruolo fondamentale nella diffusione nella psicanalisi in Italia, basti pensare alla figura di Edoardo Weiss che in questo senso ebbe un ruolo pionieristico. In qualche modo quei semi hanno dato frutti importanti anche molti anni dopo. Non dimentichiamo che proprio Trieste è stata protagonista della grande riforma psichiatrica avviata negli anni Settanta da Franco Basaglia.
Professor Dorfles, dipinge ancora?
È il mio mestiere. Continuerò a farlo finché morirò.
Daniela Gross, Pagine Ebraiche, aprile 2012
(Nell’immagine, Gillo Dorfles ritratto da Giorgio Albertini)