In cornice – La Giuditta di Klimt
Due almeno sono i pregi della mostra “Klimt” al palazzo Correr di Venezia: dare un’idea del vivacissimo ambiente culturale della Vienna di inizio secolo (animato non poco dai committenti ebrei) e portare in Italia alcuni capolavori, fra cui “Giuditta”. Klimt sottolinea la capacità di seduzione della nostra eroina che uccide Oloferne, la rappresenta come una femme fatale dell’antichità con splendidi gioielli, vestiti scollati, sguardo ammaliante. È una lettura inconsueta ma legittima, visto che nel suo libro – che non è incluso nel Tanakh – si parla di lei anche come una donna bella, e ingioiellata, capace di sedurre facilmente Oloferne. Di solito Giuditta veniva rappresentata come una campionessa di virtù (guardate Donatello o Botticelli) o, più tardi, come esempio di coraggio (ad esempio in Artemisia Gentileschi o in Caravaggio). Klimt, rileggendo il testo originale e interpretandolo con gli usi della belle epoque in cui viveva, ne ha invece sottolineato soprattutto la bellezza, con un’impostazione innovativa, che funziona anche al contrario, cioè serve a dare una dimensione anche alla femme fatale del suo periodo. Secondo Klimt, quindi, la femme fatale è capace di uccidere la sua preda – guardate l’atteggiamento di sufficienza con cui tiene in mano la testa del malcapitato – ma non è tanto priva di idee e di principi come si credeva. Può assomigliare anche a Giuditta.
Daniele Liberanome, critico d’arte