Yom Hatzmaut – Auguri al mondo
Nel rivolgere gli auguri allo Stato di Israele, in questo suo 64° compleanno, come in tutti quelli precedenti, occorre misurarsi, come sempre, col rischio della retorica, nonché col consueto timore di offuscare una ricorrenza lieta con considerazioni preoccupate o pessimistiche.
Sorgono spontanee, ancora una volta, infatti, parole altisonanti come “miracolo”, “prodigio”, “successi”, “traguardi”, frasi pompose come “sfide vinte”, “stupore del mondo” ecc. E si tratterebbe di frasi sincere, di parole vere. È vero che un Paese piccolo, piccolissimo, è riuscito a nascere, a resistere, a prosperare, contro ogni previsione, contro la logica, la storia, contro tutti. È vero che ha ridato fiducia, speranza, dignità a un popolo di esiliati, di oppressi, ai sopravvissuti della più immane ecatombe di tutti i tempi. È vero che ha donato un’identità, una bandiera, una patria a vivi e morti, che ha dato una risposta alla barbarie. Ed è vero che, oltre a difendersi e a sopravvivere, ha saputo raggiungere risultati straordinari in tutte le scienze e le arti, riuscendo a stupire, giorno per giorno, quella parte di mondo non impegnata soltanto ad odiarlo. Può esistere una retorica della verità?
Ma sorgono spontanee anche, come sempre (purtroppo, più che mai), le ansie, le paure. Israele resiste, Israele si difende. Ma fino a quando riuscirà a farlo? Quanti compleanni potrà ancora festeggiare? Come fare gli auguri a qualcuno su cui incombe una seria minaccia? Meglio fare finta di niente, dirgli “mazal tov” e basta, o, piuttosto, fargli coraggio, dirgli “ce la farai, non dubitare, io sarò sempre al tuo fianco”? Nel primo caso, si rischia di apparire ipocriti. Nel secondo, menagramo, iettatori. Non si potrebbe, almeno una volta all’anno, dimenticare le preoccupazioni, e festeggiare in santa pace?
A ricordare i compleanni precedenti, affiorano sentimenti diversi. Nei primi anni, Israele rischiava di essere strozzato nella culla, e contava su forse estremamente misere. Eppure, credeva di essere dalla parte dei vincitori contro il nazifascismo, la sua guerra pareva la prosecuzione della guerra contro Hitler. Israele, a torto o a ragione, non si sentiva solo. Poi, vent’anni dopo, metà del mondo (e proprio quella che aveva fatto della lotta al fascismo la propria fondamentale bandiera) gli voltò le spalle, Israele si trovò, suo malgrado, senza neanche rendersene conto, nel campo ‘capitalista’ dell’Occidente. Molti meno amici (veri o finti) di prima, ma, comunque, la sensazione, nella chiara contrapposizione della guerra fredda, di stare dentro uno dei due gradi schieramenti, di essere parte di un gruppo. Poi il muro di incomunicabilità col mondo arabo (quello che, geograficamente, avrebbe dovuto essere il suo mondo) ha cominciato a sgretolarsi, si è cominciato a parlare coi vicini non solo col linguaggio delle armi, ma anche con quello della politica, della diplomazia. È iniziata una flebile speranza di pace, di normalità. Normalità. Che parola strana, inaudita, che sogno impossibile! Ed è un sogno che è sembrato prendere piede sempre più, quando si sono visti cadere muri che si credevano incrollabili, si sono viste strette di mano che nessuno avrebbe mai potuto immaginare di vedere.
Ma la speranza è durata poco. Nubi nere sono tornate ad addensarsi nel cielo, la fiammella della pace pare tremare, come nella famosa canzone, “like a candle in the wind”. Israele è oggi forte, sul piano militare ed economico, come forse non è mai stato prima. Ma, indubbiamente, appare solo come non mai. Forse, non è neanche la solitudine la vera novità, ma la sua evidenza, la consapevolezza di esserlo. Forse, a essere caduta è soprattutto un’illusione. L’illusione che il mondo avrebbe riservato a Israele un trattamento diverso da quello riservato, per due millenni, agli ebrei. Che Israele potesse entrare nella famiglia delle nazioni come la patria degli ebrei, non come l’“ebrea” fra le nazioni.
Per non apparire, perciò, né retorici, né ipocriti, né malauguranti, non facciamo, in questo Yom ha-Azmaut, gli auguri a Israele, ma al mondo. Augurandogli di guarire, un giorno, dalle sue malattie infantili. E, una volta guarito, di vivere in pace. Quanto, addirittura, vivrà Israele.
Francesco Lucrezi, storico