Speranza

Non è forse un caso che Yom Ha’atzmaùt, la festa per l’indipendenza dello Stato d’Israele, arrivi una settimana dopo Yom Hashoah. Come non lo è sicuramente il fatto che in Israele non si ricordi l’apertura dei cancelli di Auschwitz, ma la rivolta del Ghetto di Varsavia per commemorare gli ebrei morti durante la Shoah. Perché se è vero che la proclamazione dello Stato d’Israele ci fu solamente qualche anno più tardi, si può tranquillamente dire che Israele nacque quel giorno. Dai rivoltosi che non accettarono passivamente la loro fine, nacque la consapevolezza comune che ci dovesse essere un destino diverso per gli ebrei di tutto il mondo. Ma è proprio questo cambio di prospettiva che rende impossibile a tanti di comprendere Israele e la sua straordinarietà. Abituati all’ebreo silente di fronte ai soprusi, da quel giorno qualcosa cambiò per sempre; mai più un ebreo sarebbe stato colpito senza che il popolo ebraico rispondesse unito. Perché che piaccia o no, il senso d’Israele è anche questo, quello di un popolo che non ha smesso di dover difendere se stesso. E se qualcuno ancora sostiene che senza la Shoah non ci sarebbe stato Israele sbaglia di grosso; la verità è che con Israele non ci sarebbe stata mai nessuna Shoah. Eppure oggi, c’è ancora qualcuno prova a mettere in discussione il suo diritto ad esistere, ed è forse per questo le parole dell’Hatikwa hanno tuttora un significato così attuale: “Non è terminata la nostra speranza, la speranza figlia di duemila anni; quella di essere un popolo libero nella nostra terra. La terra di Gerusalemme. Hag sameach a tutti voi.

Daniel Funaro, studente