Davar Acher – La realtà di Israele

Mi è capitato di venire in Israele la settimana appena conclusa, quella che comprendeva Iom Hazicharon, dedicata al ricordo dei caduti delle guerre sostenute da Israele e del terrorismo, e subito dopo Iom Haatzmaut, la festa dell’indipendenza. Non voglio raccontare qui le mie emozioni personali, che sono facilmente immaginabili, perché condivise da quasi ogni ebreo italiano che abbia fatto un’esperienza analoga: commozione, tristezza, entusiasmo, gioia. Mi sembra più significativo cercare di riflettere su due impressioni forti che ho ricevuto dai comportamenti che vedevo e dai discorsi delle persone con cui ho parlato. La prima è la partecipazione e la solidarietà. Le feste nazionali nella maggior parte dei paesi europei e anche in Italia sono state abolite da tempo, come il nostro 4 novembre, o sono rimaste quasi solo occasione di vacanza, senza partecipazione collettiva, se non eventualmente di parte. Hanno perso cioè, salvo forse il 25 aprile, la funzione mobilitante e memoriale che è caratteristica della festa, quel ruolo di “monumenti del tempo” che la rivoluzione francese reinventò a partire dalla tradizione religiosa. In Israele non è così. Nonostante tutti i discorsi che si fanno e sono certamente ben fondati, sulla frammentazione della società israeliana in settori che si parlano poco e nonostante l’allontanamento dalla militanza sionista delle origini perseguito sistematicamente da intellettuali e governi di sinistra negli ultimi decenni sui media, nella politica e nella scuola, l’impressione della partecipazione collettiva, dell’esistenza di un soggetto comune, ci una passione patriottica largamente condivisa, è assolutamente dominante. Le bandiere nazionali su macchine e edifici, il silenzio e l’immobilità in risposta all’appello della sirena che chiama due volte per Iom Hazicharon alla meditazione, la partecipazione larghissima e piena di allegria alla festa dell’indipendenza: tutto parla di un paese che non dimentica affatto la sua identità e anzi vi partecipa appassionatamente. Questa impressione coincide con i dati dei sondaggi: il quotidiano più diffuso del paese “Israel Haiom” ne ha pubblicato l’altro giorno uno da cui si deduce che il 93% dei cittadini sono fieri di essere israeliani l’80 per cento non vivrebbe altrove, il 73 per cento pensa che Israele sia il paese dove si vive meglio.
Si può partire di qui per cogliere l’altro aspetto che mi ha molto colpito. Nonostante tutte le minacce che ci preoccupano e di cui parliamo spesso, Israele appare al visitatore come un paese molto sereno, per nulla teso. Ormai sono veramente rari i locali pubblici protetti da una vigilanza serrata con scanner e perquisizioni, che erano diffusi dappertutto fino a qualche tempo fa. Anche entrando in qualche villaggio oltre la linea verde o percorrendo le strade di Giudea e Samaria, i check point sono piuttosto rilassati e l’atmosfera che si respira è di sicurezza. Il paese non appare concentrato sulla propria autodifesa, ma sullo sviluppo economico scientifico e culturale; l’economia non risente della crisi mondiale, i musei nuovi o rinnovati abbondano e sono molto frequentati, il clima è sereno e rilassato. Sono rari i posti nel mondo che danno oggi questa impressione. Ci si interroga naturalmente sulle ragioni di questa situazione, e le risposte possono essere molte (investimenti di lungo periodo sull’istruzione e l’economia, scelte di liberalizzazione, sviluppo tecnologico, soluzioni efficaci di sicurezza come la barriera, un governo che nonostante tutte le diffamazioni è il migliore da decenni a questa parte).
Ma è più interessante forse chiedersi perché ci sorprendiamo. I fatti che ho descritto non sono nuovi, fanno parte di un’ondata che dura da parecchi anni, diciamo dalla sconfitta dell’ondata terrorista voluta da Arafat sotto il nome di seconda intifada. In realtà siamo tutti, anche chi sostiene Israele, accecati da una copertura giornalistica assolutamente scorretta, che cerca ogni pretesto per dipingere Israele per quel che non è, non solo un paese “occupante” o “di apartheid”, la cui democrazia sarebbe “in pericolo”, ma anche un luogo teso e rischioso. Chi si preoccupa di Israele e lo difende, rifiuta naturalmente le accuse più palesemente ideologiche e diffamatorie, ma spesso non riesce a evitare il condizionamento di rappresentazioni che ingigantiscono ogni incidente anche minimo e per esempio corre dietro a pseudoeventi creati appositamente per fini propagandistici, come la “flottiglia” dell’anno scorso, le manifestazioni sporadicamente organizzate dalle organizzazioni palestinesi e dai governi arabi degli ultimi mesi, con pochissima partecipazione, e le fly-tiglie, che hanno coinvolto poche decine di persone, sono state gestite facilmente dalla sicurezza e non hanno inciso minimamente sulla vita del paese. Certo, se il progetto di una villetta in un paese della Giudea viene descritto con toni assai più accesi delle decine di vittime civili prodotte in Siria ogni giorno, è difficile sottrarsi all’illusione di una guerra in atto. E però quest’impressione è falsa, gli appelli a rompere la quiete per la “resistenza popolare” sono sistematicamente caduti nel vuoto. Anche la popolazione araba preferisce lo status quo ed è contenta del suo progresso economico. Questo non significa ovviamente che il terrorismo sia finito per sempre (nuovi tentativi vengono sventati quotidianamente) né tanto meno che il pericolo iraniano sia scomparso. Ma l’Israele che si può vedere oggi è tutt’altra cosa da quel che raccontano i giornali italiani. E giustamente chi li legge qui si indigna.

Ugo Volli – twitter @UgoVolli