Parole in libertà

Nella parashà letta sabato scorso, Tazrìa’, sono riportate le regole riguardo al metzorà’, colui che è affetto da una malattia della pelle chiamata tzarà’at. La Torah scrive che, una volta che la malattia sia stata accertata, il metzorà’ è impuro e “sarà isolato, la sua sede sarà fuori dell’accampamento” (Levitico 13, 46). Che alcune malattie siano contagiose è cosa nota da secoli, e non c’è bisogno di arrivare a Pasteur, Koch e agli altri illustri microbiologi dell’800 per saperlo. La Torah ci vuole forse insegnare che la profilassi prevede la segregazione dei malati? Per questo basta fare riferimento a un manuale di istruzione sanitaria. E infatti Rashì, commentando questo verso, riporta le parole del Talmud (‘Arakhin 16b) che dicono: “Perché il metzorà’ è diverso dalle altre persone impure, tanto che debba risiedere da solo? Dato che con la maldicenza (leshòn ha-ra’) ha posto una separazione fra un uomo e sua moglie, fra un uomo e il suo prossimo, anche lui sarà separato dagli altri”. Il detto dei Maestri del Talmud deriva dall’idea che il metzorà’ sia colpito dalla malattia perché ha parlato male dell’uno all’altro. Una delle basi di questa idea è l’affinità fra la parola metzorà’ e l’espressione motzì ra’, colui che fa uscire del male.
La Torah quindi ci insegna che se uno è affetto dalla tzarà’at è bene che oltre a prendere antibiotici e sulfamidici risieda da solo, non soltanto per non contagiare gli altri (come notano il Ramban/Nachmanide e la Torah Temimà) ma anche per meditare sulle proprie colpe riguardo al prossimo, perché le parole in libertà a volte hanno effetti disastrosi.

rav Gianfranco Di Segni, Collegio Rabbinico Italiano