…fiori

In tram, sulla strada di casa, una ragazza dice al ragazzo in piedi accanto a lei: ” Se tu apri un negozio di fiori io faccio la fioraia”… Mi piace immaginare tutti quei fiori dai colori diversi, e sento già il profumo dei gigli. Imperioso però irrompe nella mia fantasia Mark Rothko, il pittore, e grida: “La luce naturale non è mai quella giusta, non lo sai?”. Immagino che anche il rosso di una rosa, di un garofano o di un tulipano, ancorché recisi, gli parrebbero poco interessanti perché non dipinti da un uomo, o, per meglio dire, da lui. Ho appena assistito alla prima di Rosso, nuovo spettacolo prodotto dall’Elfo, storico teatro milanese, sulla vita di Mark Rothko. Il testo è dello statunitense John Logan e la regia di Francesco Frongia, in scena Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni Ocaňa. Immigrato dalla Russia negli Stati Uniti nel 1913 all’età di 10 anni, Marcus Rothkowitz assume in seguito il nome d’arte Mark Rothko “perché il mio gallerista aveva già troppi ebrei sul libro paga” secondo Logan, per proteggersi da un antisemitismo occulto, ma ben presente anche nel nuovo mondo, secondo le fonti storiche.
Lo spettacolo è incentrato sulla relazione tra il pittore, esponente dell’Espressionismo astratto, ma che per buona parte della vita rifiutò l’identificazione con quel movimento, e il suo giovane assistente, che dapprima lo venera ma che finisce poi per non sopportarne più l’egocentrismo e metterne e nudo l’incoerenza e l’ipocrisia, fino a portarlo a un gesto di redenzione etico-estetica finale. Per tutta la vita il pittore porta il peso, è questo uno dei tratti che maggiormente emergono dallo spettacolo di Frongia, di uno smisurato e molto ebraico senso di responsabilità e della sensazione di inadeguatezza che ne consegue. Illuminante in proposito uno dei quadri-feticcio di Rothko: il famoso Banchetto di Belshazzar di Rembrandt, ispirato al libro di Daniele, dove la mano divina scrive sul muro: “Sei stato pesato e trovato manchevole”. A questa immagine, venerata dal maestro, il giovane allievo contrappone quella di uno dei famosi barattoli Campbell dipinti da Andy Warhol, “un artista che almeno sa cogliere l’ironia delle situazioni … Non sempre e non per tutti l’arte deve essere sofferenza e dolore”, questo è ciò che l’allievo cerca di spiegare al maestro, ma gli si può credere? I due giovani fiorai sul tram mi convincono di più.

Miriam Camerini, regista