Davar Acher – Yom HaTorah e Yom Yerushalaim

Oggi in Italia è Yom HaTorah, la lodevole iniziativa decisa dall’Ucei per promuovere lo studio e la cultura ebraica nelle nostre comunità – studio e cultura che naturalmente hanno senso solo se procedono tutto l’anno, ma che è utile esporre in una giornata dedicata. In Israele e nel resto del mondo ebraico – dunque anche in Italia – oggi è Yom Yerushalaim, l’anniversario della liberazione e della riunificazione della capitale storica del popolo ebraico, alla fine della guerra del ’67. Suppongo che la sovrapposizione delle due ricorrenze sia puramente casuale, ma anche in questo caso sarebbe “ben trovata”; e naturalmente ancor di più se fosse stata scelta apposta.
Yerushalaim è infatti la nostra capitale da tremila anni, il luogo della nostra indipendenza politica, ma anche il luogo dove per quasi mille anni si è eretto il Tempio, la sede del Sacro (beit hamikdash), il punto di riferimento di ogni pensiero ebraico, l’orientamento di ogni preghiera, il solo luogo in cui la realizzazione della vita prescritta dalla Torah sia interamente possibile, perché solo al Tempio si possono realizzare molti dei comandamenti (mitzvot) contenuti nel nostro Libro. Yerushalaim è nominata più di seicento volte nel canone dei libri sacri ebraici e allusa altrettanto spesso sotto perifrasi come “il luogo che ti indicherò ecc.) – mai invece nel Corano. Heine ha scritto, da una diaspora che per lui fu anche personale (una conversione poi confusamente ritrattata) che la Torah è la “patria portatile” del popolo ebraico; ma allora Yerushalaim è il luogo della Torah o se si vuole, la sua patria. Chi, nel mondo arabo ma anche in certi frammenti ultrà dell’ebraismo, nega o ridimensiona oggi il rapporto del popolo ebraico con la sua capitale, la gioia del ricongiungimento, la reciproca appartenenza di ebraismo e Sion, deve rinnegare anche la Torah e l’esperienza storica del nostro popolo o cercare di smentirne addirittura l’esistenza.
Anche se l’amore per Yerushalaim e per la terra che essa rappresenta, iscritto nella Torah, è stato l’esempio alla base della moderna idea di nazione, come hanno mostrato molti studi recenti (Jan Assmann, Anthony Smith), molti in Occidente fanno fatica a vedere quel rapporto fra Torah e popolo che è alla base dell’ebraismo, sono convinti che per sua natura la religione debba essere per forza questione di fede e la politica pura amministrazione, entrambe “universali”, senza rapporti con identità collettiva. L’ebraismo è il contrario
dell’ “utopia”, cioè della mancanza di luogo, dell’ideale sradicato, sia esso politico o religioso. Esso al contrario ha luogo, è “topico”, l’incrocio di politica (che è il modo di regolare la città), economia (“la legge della casa”) e sacralità (kedushà cioè “differenza”) è il cuore vibrante della sua esperienza. Per noi la religione è legge rivelata (dat), legge civile assai più che liturgica. Dunque, in termini latini, questa legge, questo principio della convivenza fra i “prossimi” è legame (re-ligo) stabilito fra chi ne ha accettato il vincolo. La terra è “data”, non promessa, proprio in relazione a questa “costituzione”. Il buon diritto al possesso di Yerushalaim (di Eretz Yisrael) è iscritto nella Torah, ed è perfino una ragione della sua struttura, come spiegò mille anni fa Rashì nella sua celebre prima nota del commento al testo. Un uso della Torà che non ambisse a realizzarsi come società sul suo luogo, che si limitasse a sancire degli astratti principi etici, o peggio un minuzioso costume fine a se stesso, sarebbe vuoto, privato di buona parte del suo senso.
Per questo, durante un giorno che si è deciso di dedicare alla Torah una settimana prima del ricordo liturgico del suo dono, bisogna pensare a Yerushalaim e sapere che, come dice il salmo 137, “se mi dimenticherò di te”, anche nello studio, “la lingua mi si attaccherà al palato”.

Ugo Volli twitter @UgoVolli