Riflessioni a margine dei libri di testo

Siamo nel noioso periodo delle adozioni dei libri di testo: non solo infinite trafile burocratiche ma anche lunghissime trattative diplomatiche all’interno dei dipartimenti, complicate dal fatto che non sempre si sa in anticipo quale insegnante avrà la tale classe, e per di più le adozioni devono durare almeno sei anni. Gli altri dipartimenti in qualche modo se la sono cavata: i matematici hanno valutato scientificamente pregi e difetti di ciascun testo, i filosofi sono filosoficamente rassegnati a qualunque libro capiterà loro in mano, i dipartimenti composti da due o tre persone non hanno faticato molto a trovare soluzioni condivise. Tra noi letterati, invece, che siamo il dipartimento più affollato, ogni anno si rinnovano le discussioni tra gli anarchici individualisti, che rivendicano la libertà d’insegnamento, e i fan del lavoro di squadra, che si appellano al diritto della maggioranza; l’enfasi e la capacità di usare il caso concreto per enunciare principi generali ricordano talvolta le discussioni talmudiche, anche se finora nessuno dei miei colleghi è riuscito a far saltellare carrubi in difesa del proprio libro di testo preferito. Mentre per l’ennesima volta mi chiedevo a voce alta chi ce lo fa fare, ho capito che alcuni insegnanti si sentono persi senza un libro di testo ufficiale. Persino i Promessi sposi o la Commedia devono essere la stessa edizione per tutti, con lo stesso commento e gli stessi esercizi di comprensione. Io invece mi diverto a vedere una classe con un’ampia varietà di libri diversi, vecchi e nuovi, ingialliti o patinati, sobri o ricchi di figure colorate, più o meno commentati, con note più o meno lunghe, ma tutti contenenti esattamente lo stesso testo, che si può leggere tutti insieme parola per parola. L’unità nella varietà mi affascina. Sarà l’abitudine al seder di Pesach e alle infinite edizioni dell’haggadah?

Anna Segre, insegnante