Chiarezza su Shlomo Sand
Liquida.it è un simpatico portale specializzato nel riportare notizie e commenti esclusivamente tratti dalla rete internet. Liquida.it riporta anche un gran numero di blog (definiti dalla redazione “di alta qualità”), dando così loro maggiore visibilità. Negli ultimi mesi i redattori hanno molto gentilmente riportato anche tutti i miei interventi su Moked-UCEI. Nella pagina a me dedicata nel sito (http://www.liquida.it/sergio-della-pergola/), oltre ai miei pezzi da diversi mesi appare anche un link dal titolo: Discussioni su Sergio Della Pergola – Sulla legittimità ideologica e storica di Israele, intervista con Shlomo Sand. Shlomo Sand è il professore dell’Università di Tel Aviv che ha scritto un libro molto controverso ma di notevole successo sulla presunta “invenzione” del popolo ebraico. Ora, io due anni fa fa ho pubblicato sulle colonne del mensile Pagine Ebraiche una recensione di tale libro. Ma essendo Liquida.it specializzato in materiali elettronici, di tale mia opinone sul libro di Sand non vi è traccia nel sito. Vista l’insistente associazione del nome di Sand al mio, ho pensato che fosse utile ripubblicare la mia recensione in rete offrendo a Liquida.it l’opportunità di riprenderlo, così che il colloquio virtuale fra me e Sand potrà avere due interlocutori e non uno solo. Ed ecco il testo originale da Pagine Ebraiche, 2010, 2:
Albert Einstein amava farsi fotografare mentre pedalava in bicicletta nei vialetti di Princeton, ma non è per rinforzare la propria équipe ciclistica che il prestigioso Institute for Advanced Studies aveva offerto la nomina al professore. Ora Shlomo Sand ha scritto un testo di macro-storia e macro-sociologia del popolo ebraico, ma sono i suoi lavori sul cinema e la letteratura francese contemporanea che gli hanno dato la professura all’Università di Tel Aviv. Il libro di Sand Dove e quando è stato inventato il popolo ebraico? apparso in ebraico presso una piccola casa editrice specializzata in saggistica controcorrente, ha avuto un buon successo di vendite in Israele. L’autore dimostra molte letture e familiarità con il metodo della scrittura scientifica. Tradotto prima in francese e ora in inglese, il libro sta andando altrettanto bene, ha raccolto numerosi elogi ed è valso a Sand il premio Aujourd’hui, oltre a una cascata di recensioni disastrose. In breve, la tesi del libro è che non esiste un popolo ebraico sul piano antropologico, storico o culturale. Pertanto la pretesa degli ebrei di accedere a una propria sovranità politica come qualsiasi altra nazione è infondata e lo stato di Israele non ha ragione di essere – per lo meno non in quanto stato nazionale ebraico. In modo trasparente – e a sgravio dell’autore, anche in parte dichiarato – la procedura seguita per dimostrare questa tesi è quella ben nota nella storia delle idee e in particolare nell’analisi del pensiero politico dell’ingegneria alla rovescia: si parte dal prodotto finale, si vede com’è possibile smontarlo, e poi lo si rimonta in modo tale da farlo apparire assurdo. Alla fine, e dunque all’inizio, del discorso di Sand vi è in effetto una serrata critica dell’attuale situazione esistenziale della società israeliana e del progetto ideale che la sorregge. Sand non ama Israele come stato nazionale degli ebrei e preferirebbe un ipotetico neutrale stato dei cittadini senza distinzione fra ebrei e palestinesi, e se la cose finisse qui non ci sarebbe molto da aggiungere. La critica politica è non solo legittima ma assolutamente necessaria in una polis vigorosamente dialettica com’è quella di Israele, e ciò vale certamente anche all’interno di una ben più longeva tradizione ebraica di dibattito e di dissenso ideologico e culturale. Il problema comincia quanto intorno al punto focale del dissenso politico l’autore si sforza di disegnare dei cerchi concentrici argomentativi di natura per cosí dire scientifica, per poi sostenere di avere con successo scagliato una freccia al centro del bersaglio.
La strategia generale del discorso de-construttivista sulle identità nazionali e religiose è tutt’altro che nuova. Negli anni ’80 fece colpo il libretto dei demografi Le Bras e Todd sull’Invenzione della Francia, subito ripreso dallo storico Pierre Chaunu. Benedict Anderson, un esperto di storia e cultura dell’Asia sud-orientale, aveva scritto uno stimolante e influente saggio sulle Comunità immaginate. In realtà il concetto di nazione monolitica è sempre meno plausibile non solo a causa della globalizzazione ma anche per via della tangibile sopravvivenza nella lunga durata di stratificazioni culturali ampiamente antecedenti la formazione delle identità nazionali dalle quali, in teoria, avrebbero dovuto essere sommerse. D’altra parte, molti dei miti costitutivi delle identità nazionali poggiano su basi evidenziarie a dir poco labili, se non inesistenti. Su questa falsariga sono state scritte molte pagine anche sull’identità dell’Italia (e degli italiani?) – da Bonvesin de la Riva fino ai riti celtici della Padania.
Fin qui, dunque, l’operazione semantica di Sand segue linee critiche oramai super acquisite e applicabili a tutte le identità nazionali. Anche l’identità ebraica si avvale talvolta di concetti e di credenze che non è sempre possibile dimostrare sulla base dell’evidenza documentaria, anche se gioca a suo vantaggio la propensione alla parola scritta e dunque una traccia concreta di gran lunga superiore a quella della maggior parte delle altre civiltà. E comunque rimane il fatto che le identità che si formano su queste fondamenta comuni, esatte o immaginate che siano, non sono per questo meno rilevanti e tenaci e dunque costituiscono un fondamento durevole dei comportamenti collettivi. Emblematica in questo senso è l’identità dei Palestinesi che al di là della memoria degli oltre sessant’anni di conflitto con Israele e al di là di ció che essa stessa ha mutuato da Israele, ha ben poca sostanza culturale ma rappresenta pur sempre una realtà concreta con cui è inevitabile misurarsi.
Ma Shlomo Sand vuol strafare e come prova della supposta fallacia dei miti della storia ebraica non trova di meglio che appoggiarsi ad altre mitologie non meno problematiche. Ecco dunque rispuntare il bidone della commistione fra ebrei e Kazari, reso popolare negli anni ’70 da Arthur Koestler e sostenuto da alcuni linguisti come Paul Wexler ma smentito clamorosamente dagli ultimi studi di genetica delle popolazioni. È come se un fisico riscoprisse l’ipotesi che l’unità minima della materia è la molecola, mentre gli esperti all’acceleratore di Ginevra si interrogano su che cosa ci sia dopo i quanti. Gli studi di Michael Hammer, Karl Skorecki, BatSheva Bonné, Ariella Oppenhein e altri sulla biochimica applicata alla vita umana hanno per sempre cestinato l’ipotesi post-modernista e post-sionista, confermando invece le nozioni convenzionalmente note della storia del popolo ebraico.
È dunque ora dimostrato che la grande maggioranza degli ebrei (sefarditi e ashkenaziti) e delle popolazioni arabe mediorientali hanno origini comuni che vanno indietro nel tempo per quattro millenni. In epoca antica il nucleo ebraico ha esercitato un visibile potere di attrazione su altri ma poi è rimasto a lungo sostanzialmente segregato dalle civiltà circostanti. Il fatto che gli ebrei di oggi siano in gran parte i discendenti di pochi progenitori comuni, uomini e donne, e non il prodotto di frequenti scambi con altre società è confermato dall’incidenza elevata di portatori di specifiche patologie ereditarie. Le differenze interne, in questo caso, riflettono la prolungata segregazione delle diverse comunità ebraiche le une dalle altre.
Finito fuori strada sul tema della continuità delle generazioni, Sand appare ancora più sprovveduto sul tema della continuità culturale. Qui l’evidenza canonica e perfino alternativa è talmente schiacciante che sarebbe bastato aprire un sommario lemma di enciclopedia per documentarsi meglio sulla natura della multi-millenaria produzione culturale ebraica. Ma l’ipotesi dell’invenzione è più forte degli infiniti testi di natura normativa, commentari, scambi di informazione e memorialistica, letteratura di fantasia e poesia, transazioni commerciali e atti giuridici, storiografia, e nella fattispecie soprattutto degli endemici germogli di discorso politico ebraico dell’ultimo millennio, finalmente concretizzati nel secolo dei risorgimenti nazionali.
Le spettacolari trasformazioni sociali e demografiche degli ebrei come le grandi migrazioni internazionali, fra queste l’aliyah verso Israele, o la mobilità sociale e urbana non sono avvenute per caso o in seguito a delle ciniche manipolazioni di masse acefale da parte di sconsiderati capipopolo, ma per via di complesse e a volte intollerabili condizioni esistenziali percepite in larga sintonia da persone ubicate in varie parti del mondo e in cerca di liberazione come individui e come comunità. È dunque all’ebreo sia come produttore di cultura sia come soggetto sociale che Sand nega il diritto all’autodeterminazione.
Di fronte all’impegnato ma assolutamente improbabile e stellarmente incompetente Sand, assieme alle stroncature degli esperti, sono spuntati anche molti giudizi favorevoli. Notevole quello in stile caporalesco di Toni Judt sul Time Literary Magazine che già distribuisce istruzioni agli ebrei europei su come distaccarsi da Israele. Gli ebrei europei sapranno certo gestire con giudizio i loro sentimenti d’identità ebraica senza avere bisogno di Sand. Forse ancora più che per il suo contenuto disinformativo (per gli ignari e gli sprovveduti), il libro costituisce una cartina di tornasole circa lo stato del discorso politico odierno su Israele. La verità è che il libro di Sand non vende copie e vince premi perché è tanto bello: ci sarà sempre un lettore e un premio in attesa per un libro come quello di Sand.
Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme