Ricostruire dopo il terremoto
Il terremoto e gli altri grandi disastri naturali fanno scattare un sentimento diffuso di solidarietà umana; gli ebrei italiani, come Israele in campo internazionale, sono sempre stati in prima fila per dare il loro aiuto alle vittime di questi eventi naturali senza perché, che stranamente la common law chiama “act of God”, azioni divine. E’ un dovere profondo che noi sentiamo in questi casi, un obbligo che nasce dalla comune umanità e supera qualunque barriera.
Al di là della solidarietà, il disastro naturale propone prospettive contrastanti al pensiero religioso. Lo si vede spesso come una traccia del divino, la più evidente: tuoni, tempeste, colline “che saltellano come gazzelle”, mari in tempesta, fumi, mura che cadono, monti nebbiosi fanno parte dell’immaginario religioso universale e non mancano neppure nel nostro Tanakh – anche se una celebre visione profetica nega che in tanto clamore ci sia l’autentica teofania, che invece va cercate in “una voce di silenzio sottile”. Resta il fatto che l’esperienza solitaria dell’impotenza umana di fronte alla forze cosmiche si fa spesso evidenza religiosa. Nell’antichità di tutti i popoli vi è la tentazione idolatrica di attribuire a ogni impressione forte un soggetto preternaturale; ma al di là della feticistica personificazione degli eventi e delle cose, spesso alla base dell’esperienza religiosa si ritrova una percezione (perfino un’estetica) della dismisura che dalla piccolezza e miseria della nostra misura impone la necessità del passaggio al trascendente. Lo spettacolo terribile dello scatenamento naturale, come quello sublime della sua armonia, entrambi fuori scala rispetto all’uomo, suggeriscono a molti un’intuizione del divino.
Ma nel pensiero europeo, accanto a questo movimento proiettivo, il disastro naturale presenta anche una sfida etica alla religione, che trae spunto dall’apparente indifferenza e mancanza di ragione di eventi che coinvolgono luoghi e persone senza cause apparenti. Lo stimolo per il “Candide” di Voltaire, prototipo della letteratura antiprovvidenziale della modernità e rovesciamento sarcastico di ogni teodicea, venne dal grande terremoto di Lisbona del 1755. Che soprattutto disastri del genere dimostrino la casualità del mondo naturale e dunque l’assenza o l’impotenza del divino dal mondo è un luogo comune della modernità. Di conseguenza “la difesa della saggezza suprema del Creatore contro le accuse che le muove la ragione a partire dalla considerazione di quanto nel mondo vi è di contrario al fine di questa saggezza” (Kant) è un compito difficilmente eludibile per un pensiero religioso che sia consapevole della modernità.
Il pensiero ebraico è certamente più attrezzato di altri per svincolarsi dal dilemma dell’ateismo etico moderno, a causa del suo caratteristico orientamento antimetafisico, della sua considerazione del mondo come bisognoso di completamento o di “riparazione”, della consapevolezza che “dal Cielo” viene il bene come il male e che vi è un pericolo implicito nell’incontro col sacro; insomma per la sua naturale lontananza da ogni facile ottimismo, da ogni wishful thinking, da ogni buonismo consolatorio. Resta l’inciampo (in greco skandalon) dell’uomo che si imbatte di improvviso nella sua fragilità e nella frequente insensatezza almeno apparente del mondo. Noi sappiamo che in questi momenti ci è richiesta fiducia concreta (“emunà”), più che un’astratta fede teologica: fiducia nell’azione umana, nella giustizia, nella vita. E fedeltà al progetto di un senso da costruire, di un mondo migliore da far vivere con le nostre azioni. Sappiamo anche che dobbiamo chiederci innanzitutto conto della responsabilità umana in questi casi, del modo in cui sono state costruite fabbriche e abitazioni, delle precauzioni possibili non prese, dei soccorsi insufficienti. E che, ancor più che l’indagine su ciò che “nel mondo è contrario alla saggezza” e sulle sue cause umane o naturali dobbiamo guardare avanti e saper riprendere il cammino.
Ugo Volli – twitter @UgoVolli