Qui Torino – Accoglienza e identità

Nel suo settimanale intervento su “L’Unione informa”, venerdì scorso Anna Segre presentava – con l’ironia e la verve che contraddistinguono il suo stile – la situazione attuale dell’ebraismo torinese, anche alla luce di recenti interventi e polemiche. Peccato che la descrizione da lei proposta appaia viziata da una visione manichea e in definitiva superficiale che non potrà portare, qualora non si sia in grado di oltrepassarla, al superamento dell’attuale situazione di rottura e aperta conflittualità.
E’ vero, noi ebrei e le nostre comunità siamo come contagiati da una sindrome della divisione, della polemica che quasi inevitabilmente ci porta a conseguenze assai negative: un logoramento progressivo di legami saldi e datati fatti di stima, di amicizia, di lavoro in comune per l’ebraismo; in definitiva una cesura capace di mettere in discussione il concetto stesso di comunità e dunque quello di comune identità. A produrre un effetto così deleterio è forse l’esasperazione di quello spirito critico che per altri versi è il sale dell’ebraismo. Bene – anzi, male, a Torino sta accadendo proprio questo; lo dico con una sincera, personale sofferenza. E così diviene amaramente vera la barzelletta riportata da Anna, che fa del litigio un minhag locale capace di aggiungersi ai precetti veri e propri. Ma nella sostanza a salvare l’unità dell’ebraismo potrà essere solo la preservazione dei suoi principi fondamentali, l’accettazione e la permanenza delle sue regole, come del resto è sempre stato nel corso della sua storia millenaria. L’accoglienza di contributi molteplici e la condivisione variegata dei momenti topici della nostra tradizione sono certo oggi come in passato elemento indispensabile per una convivenza ebraica cosciente e responsabile. E tuttavia oggi come in passato la permanenza dei vincoli forti rappresentati dalle mitzvot e dai minhagim locali costituisce per l’ebraismo l’unico vero strumento di sopravvivenza fondata. Dunque l’accoglienza, l’apertura a tutti i lontani – aspetti importanti nella precaria realtà ebraica attuale – devono accompagnarsi con la presenza e il rafforzamento delle insostituibili radici. Perché se rischiamo di perdere le radici rischiamo di perdere noi stessi.
Tradotto in più locali termini torinesi (ma legato a temi forse non solo torinesi) questo è uno degli assunti di fondo di Anavim, il gruppo che da luglio scorso guida la Comunità ebraica. E’ dunque superficiale e pesantemente falsificante presentarlo – come Anna fa pur senza nominarlo – quale la parte “esclusiva” della Comunità, quella composta dai duri e puri di un ebraismo che non sopporta inquinamenti alla sua visione radicale. Mentre dall’altra parte – cioè dalla parte del gruppo di minoranza Comunitattiva, ora paradossalmente alleato con gli ex-avversari del Gruppo di Studi Ebraici – si concentrerebbe tutto il settore “inclusivo”, aperto e generoso (dunque moderno e progressista) della Keillah. La situazione è molto più complessa, come al solito. Come al solito non ci sono i “buoni” e i “cattivi”; c’è una maggior articolazione dal punto vista del contenuto e una situazione assai più trasversale dal punto di vista concreto delle persone e del loro comportamento.
Da un assunto parziale, pur brillantemente sostenuto, non può che derivare – nel corsivo di Anna Segre – una conclusione parziale e in definitiva contraddittoria, perché nell’insieme intollerante. Chi, scorgendo nella sua Comunità quella che gli appare una violazione di aspetti fondamentali del Patto, la fa con amarezza notare ai suoi correligionari è da condannare senza appello come colui che li offende senza motivo, oppure è da prendere attentamente in considerazione, come qualcuno che tenta di stimolare un salutare sguardo autocritico? Anna non ha esitazioni, e cala inesorabile i colpi indiretti della sua ironia verso chi ritiene colpevole di oltraggio. Forse qualche dubbio in proposito e una più attenta autoanalisi sarebbero più produttivi.

David Sorani