Davar acher – Antisemitismo di ritorno

Le statistiche dicono che in buona parte dell’Europa l’antisemitismo è in crescita. Così è in Francia, dove la strage di Tolosa ha prodotto sì una condanna generale della società civile, ma anche un’ondata impressionante di emulazione; così nei paesi nordici, soprattutto Svezia e Norvegia, ma anche Olanda e Belgio, che generalmente vengono descritti come i più civili e democratici del continente e quindi del mondo intero e da cui le piccole ma radicate comunità ebraiche stanno letteralmente fuggendo. L’ultimo caso, particolarmente impressionante, è quello di un ragazzino ebreo, già sottoposto ad atti di antisemitismo, marchiato a fuoco durante il barbecue di una scuola, senza che né le autorità scolastiche, né quelle politiche sentissero la necessità di intervenire e senza che la notizia fosse ritenuta dai media abbastanza rilevante per la pubblicazione (i dettagli si possono leggere qui.
Spesso si spiega questo risorgere dell’antisemitismo con la situazione mediorientale: dopotutto l’autore della strage di Tolosa era un algerino, e i paesi del nord e dell’ovest dell’Europa ospitano una forte immigrazione islamica. Chi vede le cose in questo modo di solito sostiene che anche l’antisemitismo europeo si risolverebbe con la pace in Medio Oriente. È chiaro che c’è una correlazione fra antisemitismo e antisionismo o odio di Israele: le statistiche mostrano chiaramente che la presenza di immigrazione islamica aumenta la frequenza di atti antisemiti, e così l’acutizzarsi del conflitto in Medio Oriente, ma il fatto che Israele non sia stato toccato dalle rivolte arabe e che il numero delle vittime recenti sia irrilevante rispetto alla decine di migliaia di morti accumulati in Siria, Egitto, Libia, Tunisia, Yemen, non ha affatto spento l’odio, anzi. In generale nelle scienze sociali le correlazioni statistiche non dimostrano che vi sia una casualità, in un senso o nell’altro: che i giocatori di golf tendano ad avere macchine di marca straniera non segnala certo un effetto dello sport, ma è probabilmente effetto di una terza cosa, una condizione economica. E se una causalità c’è, decidere in che senso vada è questione di analisi storica, non di statistica.
Il fatto è che l’antisemitismo, sia nel mondo europeo che in quello arabo, è una storia antichissima e continua. In Europa la tendenza antisemita, alimentata per millenni dalla Chiesa, fu nascosta, ma non certo annullata dalla Shoah (si pensi alla strage che nel ’46 che uccise Kielce in Polonia tutti i reduci da Auschwitz, raccontata da Adam Michnik in “Il Pogrom”, Bollati Boringhieri 2007). In terra di Israele le prime uccisioni di massa, a Hevron e Tzfat, risalgono al ’29, vent’anni prima della fondazione dello Stato di Israele e quasi quaranta prima dell'”occupazione”. Nei paesi arabi la cacciata di un milione e mezzo di ebrei, paragonabile solo a quella dalla Spagna del 1492, distrusse comunità millenarie; ma non era certo il primo episodio di una persecuzione anch’essa millenaria. È uscito di recente anche in italiano un libro di Jeffrey Herf che testimonia l’opera indefessa di “Propaganda nazista per il mondo arabo” (Edizioni dell’altana), compiuta dai nazifascisti prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Insomma, ci sono ottimi motivi per pensare che storicamente l’odio per Israele sia effetto dell’antisemitismo e non l’inverso. Una prova fondamentale di questa determinazione è la straordinaria partecipazione a questo conflitto, fra i tanti assai più terribili che vi sono nel mondo, l’esagerazione dei giudizi, l’aspetto militante delle organizzazioni e delle persone che si battono contro Israele (molto più che per gli arabi, se no sarebbero almeno in po’ interessati, per esempio, a quel che accade in Siria).
Di solito i nemici di Israele, almeno a sinistra, negano con sdegno di essere antisemiti, si limitano a combattere uno stato “illegale”, “criminale”, magari “nazista”. Che rovesciare la colpa storica dell’Europa sull’Israele di oggi sia un gesto per assolvere una responsabilità che riguarda buona parte della cultura e della politica europea, della Chiesa e dei movimenti socialisti, del cristianesimo riformato e dell’intellettualità laica e volterriana (tutti in qualche modo portatori del morbo antisemita fra Settecento e Novecento) è un dubbio che di solito non li sfiora affatto. E però, ogni tanto, ci pensano gli eredi diretti dei passati regimi a ricordarlo. È istruttivo per esempio leggere le congratulazioni del partito neonazista tedesco NPD all’organizzazione cattolica ufficiale ferocemente antisraeliana Pax Christi per le sue campagne antisioniste ne trovate notizia qui.
La conclusione di questo ragionamento è semplice: non è possibile difendere l’ebraismo senza tener conto che l’obiettivo primo dell’antisemitismo è lo Stato di Israele. Chi si illude che mostrandosi “ragionevole”, dando ragione ai nostri nemici, lavorando per squalificare Israele di fronte all’amministrazione americana come fa “J Street”, difende l’ebraismo dai “danni del conflitto mediorientale”, è ancora più illuso degli ebrei fascisti della “Nostra Bandiera”,che morirono comunque nella Shoah: perché loro non avevano la nostra esperienza e potevano credere, sbagliando, nella buona fede del regime e della civiltà europea. Mentre noi oggi non possiamo e non dobbiamo.

Ugo Volli – twitter @UgoVolli