L’Israele di Kadishman
Domenica scorsa Il Corriere della Sera ha dedicato la prima pagina della sezione Cultura a un artista israeliano, un fatto che non va passato sotto silenzio. A maggior ragione se si tratta di Menashé Kadishman, che in tutti i suoi lavori combina i valori ebraici più profondi con la realtà attuale israeliana, ed è capace di provocare, ma sempre con il sorriso e con il tocco del poeta. Alla Biennale di Venezia si attirò critiche e titoloni per aver esposto pecore bianche vive su cui aveva dipinto con un bersaglio blu (simbolo dei soldati mandati a morire) che si muovevano su e giù su un percorso, come fossero in un videogame, ma reale. Però girava anche in gondola con amici, e a chiunque si avvicinava nelle calli lanciava un tralcio di vite, simile a quello riportato dagli esploratori Giosuè e Calev, cioè un altro simbolo di Israele, ma stavolta tutto positivo. Anche nella sua celebre serie dei “Sacrifici di Isacco”, in cui il suo grido antimilitarista raggiunge l’apice, la volontà di denuncia degli orrori della guerra si unisce sempre al profondo amore per la terra, per i suoi figli, e mostra un legame indissolubile, seppur sui generis, con la Torah. Impressionante davvero è la sua installazione per il Museo Ebraico di Berlino, riproposta nel 2006 nella mostra collettiva sull’arte israeliana organizzata al Palazzo Reale di Milano. Sono un miriade di facce, diverse cadute a terra, come le foglie di un albero che però continua a vivere; è un omaggio alle vittime, ognuna con la sua storia, ma anche un messaggio verso il futuro e verso Israele che è nato mentre tante comunità europee sono andate distrutte.
Daniele Liberanome, critico d’arte