La danza d’Israele rende le ali alla fenice

Gran finale in bellezza, con una replica straordinaria e a furor di popolo del concerto della cantante israeliana Noa in calendario per il 27 giugno, per il Napoli Teatro Festival Italia, che quest’anno ha dato ampio spazio alle compagnie israeliane di danza contemporanea più interessanti del momento.
Fra le compagnie ospiti, la Vertigo Dance Company, fondata a Gerusalemme nel 1992 da Noa Wertheim e Adi Sha’al, che nei suoi 20 anni di attività ha prodotto altrettante coreografie originali elaborate dalla direttrice artistica Wertheim assieme a progetti nati dalla collaborazione con altri artisti. Le performances di Vertigo sono ispirate alla natura e ai suoi elementi, volte a creare uno spazio fisico di incontro tra danzatori e spettatori.
L’incontro avviene davvero nella coreografia presentata a Napoli negli scorsi giorni: raggiunta la suggestiva sede dello spettacolo, il parco archeologico di Pausilypon, un promontorio a picco sul mare al quale si accede a piedi tramite una lunga galleria scavata nella montagna, gli spettatori vengono disposti a sedere in cerchio attorno a una pista di terra simile a quella di un circo. Ad accogliere danzatori e pubblico si eleva una cupola geodetica, ossia una struttura di bambù composta da triangoli che a loro volta creano pentagoni ed esagoni: “una forma che richiama la geometria dell’universo”, secondo le intenzioni di Wertheim. Progettata dall’inventore visionario Buckminster Fuller sulla base di un’ampia riflessione sui problemi di sostenibilità, la cupola è composta interamente da materiali riciclati o naturali. Ciò che maggiormente affascina e commuove nello spettacolo è la sensazione di vicinanza con i danzatori e con la coreografia stessa, che si svolge in tutta naturalezza davanti agli occhi del pubblico. La scelta di rappresentare lo spettacolo al tramonto, utilizzando la luce naturale come nell’antico teatro greco, unita alla possibilità, o anzi alla necessità di guardare direttamente negli occhi i danzatori, offrono allo spettatore un’esperienza estremamente viscerale, non mediata da alcun artificio teatrale o speculazione intellettuale. I costumi, in cotone naturale e colori rosso e arancione, richiamano l’immagine di un antico rito dell’America latina, così come la musica, che suggerisce gioia e leggerezza e anche una saggezza antica quanto remota.
Il mito della Fenice, l’uccello che muore e rinasce sempre dalle proprie ceneri, ha ispirato Wertheim nell’immaginare una performance che si rigenera e rinnova ad ogni nuova rappresentazione, nutrendosi della terra e della luce che la accolgono così da dar vita a energie e suggestioni sempre nuove.
L’impressione di assistere a una danza di livello eccellente ma – come si direbbe in ebraico – “ad altezza d’occhi”, cioè molto vicina allo spettatore, è probabilmente uno degli aspetti che più affascinano chi si sofferma un momento a guardare le tre compagnie israeliane presenti al Festival quest’estate. A cominciare dall’età giovanissima delle due coreografe e direttrici artistiche Wertheim (Vertigo) e Dafi Altabeb, fondatrice del Dafi Dance Group, nato appena nel 2005 e già molto interessante sulla scena internazionale. La terza compagnia, Kibbutz Contemporary Dance Company, fondata nel 1970 e diretta da Rami Be’er, vanta maggior tradizione, ma non viene per questo meno allo stesso principio. Basta incontrare i suoi giovanissimi danzatori intenti a servirsi generosamente dal buffet della colazione sulla terrazza dell’albergo per rendersene conto. La ballerina silfide e l’artista ascetico rimangono per oggi accanto alla Fenice: nella mitologia.

Miriam Camerini, regista