Davar Acher – Rifiuto di condividere
Una notizia di cronaca che è circolata nei giorni scorsi su Internet ma non ha attirato l’attenzione della stampa, mi sembra richiedere una riflessione un po’ più approfondita, al di là dell’ovvio riflesso di ridicolo o di irritazione che essa suscita a prima vista. La storia riguarda un dirigente del partito di estrema destra ungherese Jobbik, esplicitamente antisemita, antirom, autoritario e nostalgico dei governi ungheresi filonazisti. Costui si chiama Csanad Szegedi, è uno dei tre deputati europei del partito e un leader nazionale: è noto per essere andato al Parlamento Europeo abbigliato nella divisa dei gruppi paramilitari del suo partito. Bene, in un’intervista al giornale di estrema destra Barikad, Szegedi ha ammesso con rammarico di avere appena scoperto di recente una sua discendenza ebraica, ma ha sostenuto con forza che questa non modifica affatto le sue convinzioni politiche diciamo pure il suo razzismo, perché un bravo ungherese si riconosce dallo spirito e non solo dal sangue, eccetera eccetera. In altri termini, il sangue ebraico non impedisce di essere antisemiti, anzi in certi casi lo impone come prova di distacco dalle proprie origini. Che poi al momento buono i nazisti non si facciano impressionare da queste dichiarazioni di fedeltà all’ideologia e trattino gli ebrei fascisti come tutti gli altri, è un dato storico che molti di costoro hanno dovuto imparare quando era troppo tardi.
In realtà, come i bene informati sul caso hanno osservato (per esempio qui), Szegedi deve aver mentito, perché le sue “origini ebraiche” sono una nonna, di nome Magoldna Klein, che non solo era ebrea, ma anche una sopravvissuta dalla Shahà, come il deputato fascista non poteva non sapere. Semplicemente la cosa è emersa adesso e lui si è trovato obbligato a farvi fronte. Il che rafforza la mia considerazione: è probabile che si possa diventare filo-nazisti pur sapendo di essere di origine ebraiche. I governi ungheresi degli anni Quaranta avrebbero mandato Szegedi diritto ad Auschwitz, ma gli piacciono lo stesso.
Non è un caso del tutto isolato. Certamente si può diventare antisraeliani e antisionisti e in definitiva anche antisemiti essendo ebrei e magari osservanti. E’ il caso per così dire all’estrema destra (è un’altra destra rispetto a Jobbik, ma pur sempre nostalgica e intollerante), dei tre charedim di Naturei Karta che sono stati arrestati l’altro giorno per aver vandalizzato Yad Vashem, il museo della Shoah di Gerusalemme, con scritte inneggianti al nazismo come alleato del “regime sionista” che opprimerebbe palestinesi ed ebrei ortodossi (la notizia è qui). Sono gli stessi che qualche mese fa inscenarono una sfilata con la stella gialla e la divisa a strisce dei deportati per protestare contro il “nazismo” dello Stato di Israele. Natrurei Karta non sono tutti i charedim, anzi è una piccola minoranza; ma resta il fatto che essi non sono respinti dagli altri. In questi giorni sulla stampa israeliana è apparso l’appello della Rabbanut contro la decisione del governo di iniziare a finanziare alcuni rabbini non ortodossi, non un appello a isolare i gruppi che danno origine a queste grottesche manifestazioni antisemite, come i Naturei Karta e i Satmar. A Meà Shearim si sono fatte manifestazioni contro il progetto governativo di estendere il servizio militare obbligatorio ai charedim, ma, per quel che ne so, dell’incidente, diciamo così, di Yad Vashem, si è preferito tacere.
Magari senza arrivare proprio a questi eccessi, sono molto diffuse posizioni analoghe di rifiuto di Israele e dell’ebraismo anche a sinistra: non sono solo i soliti Sand, Pappé e i loro piccoli imitatori nostrani che si accompagnano ai terroristi palestinesi, dicono che la fondazione di Israele è stata una “catastrofe (Nakba) e così via. Vi sono anche casi più buffi, come quello dell’ex ambasciatore e direttore generale del ministero degli esteri israeliano Alon Liel, cioè il numero due del ministero quando lo governava quello Shlomo Ben-Ami, il politico più estremista del “fronte della pace”, che negli anni recenti è stato oggetto di forti polemiche per aver offerto consulenza all’Autorità Nazionale Palestinese, naturalmente nel senso di non accettare compromessi con Israele. Bene, questo Alon Liel ha fatto rumore in Sudafrica, dov’è stato ambasciatore israeliano, dichiarandosi favorevole al boicottaggio della sua patria: naturalmente per il suo bene, per farla ritornare alla politica giusta (cioè quella delle concessioni indeterminate), per far abbandonare le “colonie”, per far ripartire il processo di pace e così via (la notizia è qui)
Un (ex) ambasciatore che rinnega il suo (forse ex) Stato e con esso il suo popolo per ragioni ideologiche non mi appare così diverso da un ungherese che rinnega la nonna per ragioni altrettanto ideologiche, benché più ributtanti, o di charedim che stanno dalla parte di Hitler e di Arafat contro Israele. Credo che dovremmo riflettere tutti sul meccanismo comune alle posizioni di Szegedi, di Liel e dei Naturei Karta, sul fondamentale rifiuto all’appartenenza che le motiva – e anche sulle complicità che queste posizioni suscitano. Le distinzioni sono ovvie e non mette conto di soffermarsi su di esse: Szegedi ci sembra più pericoloso, i Naturei Karta più ridicoli, Liel ad alcuni potrebbe sembvrare quasi rispettabile per il suo “idealismo”.
Ma ciò che accomuna questi gesti è meno banale, soprattutto perché sotto ognuno di essi vi è una pretesa morale: il rispetto della Torah e della tradizione lette in maniera particolarmente chiusa e dogmatica da parte dei Naturei Karta, l’amore per il paese di nascita per il deputato neofascista, la passione per la “pace” (anche se essa, a stare alle parole dei palestinesi, rischia di essere decisamente sanguinosa per il popolo ebraico) per Liel e compagni. Quest’ultima posizione merita di essere approfondita in maniera particolare, perché ha un’eco di stampa in Israele e nel mondo e un prestigio intellettuale del tutto esagerati rispetto sia alla sua influenza nell’elettorato israeliano (inferiore al 10%) sia al suo fondamento storico-giuridico. E però è una posizione antica, che risale ben più indietro rispetto all’ubriacatura pacifista dei tempi in cui Ben-Ami faceva il ministro, a quando Martin Buber (proprio lui!) in piena Shoah era favorevole a chiudere le porte agli immigrati dell’Europa orientale, condannandoli a morte sicura, pur di non irritare gli arabi, e Leon Magnes (il primo rettore della Hebrew University) faceva campagna nel ’48 a Washinghton perché gli Usa non riconoscessero Israele, anzi gli imponessero sanzioni, a quando Leibowitz paragonava Tzahal all’esercito nazista e via delirando.
A me pare che in fondo ci sia lo stesso gesto: il rifiuto di condividere il destino storico del popolo ebraico, l’assunzione di una propria superiorità, l’assunzione di stereotipi che sono in sostanza antisemiti non solo nel caso di Szegedi, ma anche dei Naturei Karta e dei “post-sionisti” di sinistra, l’illusione che ci si possa salvare dissociandosene. Nel momento in cui il fronte antisraeliano si rafforza e rinasce l’antisemitismo in Europa, è necessario essere consapevoli della sostanziale equivalenza di queste posizioni.
Ugo Volli – twitter @UgoVolli