L’Inno conteso

Generalmente, cerco sempre – non so con quanto successo – di rappresentarmi anche le ragioni altrui, e di cercare di assumere, almeno in via ipotetica, il punto di vista di chi la pensa diversamente da me: se non altro, se non per poter cambiare idea, per poter meglio fondare e argomentare le mie ragioni. Ma – e lo dico con amarezza – mi riesce sinceramente difficile capire le recenti proposte di chi vorrebbe cambiare l’inno nazionale israeliano, per potere – attraverso una eliminazione dei riferimenti all’“anima ebraica” – renderlo meglio accetto e condivisibile da parte della minoranza araba del Paese. Mi chiedo come mai un problema del genere si ponga soltanto per Israele. Gli inni degli oltre 200 Paesi rappresentati all’ONU sono tutti perfettamente graditi, parola per parola, al 100 % delle varie popolazioni? I loro testi sono considerati come dei veri ‘programmi politici’, effettivi e vincolanti, entusiasticamente condivisi da tutti? Noi italiani siamo ancora convinti che la vittoria sia “schiava di Roma”? E gli americani? L’inno statunitense, com’è noto, rievoca una battaglia combattuta dai coloni inglesi contro la corona britannica, durante la guerra d’Indipendenza. In che percentuale i cittadini americani di oggi sono discendenti di quei coloni, e si riconoscono come tali? Sappiamo bene che, per Israele, le “analisi del sangue” sono sempre dieci volte più severe, ma stavolta mi sembra proprio che si voglia passare il segno.
Soprattutto, non riesco a capire perché mai, una volta modificato l’inno, non si debba poi – logicamente, coerentemente, inevitabilmente – passare ad altri tipi di modifiche. Anche la menorah, rappresentata nello stemma ufficiale del Paese, è un simbolo ebraico, bisognerebbe eliminare anche quella. E anche il maghen David, nella bandiera. E siamo sicuri che il nome Israele vada bene? Perché non Ismaele? E come si potrebbe continuare a giustificare la Legge del ritorno, che permette agli ebrei – e solo a loro – di acquisire automaticamente la cittadinanza? Bisognerebbe eliminarla, o estenderla anche agli arabi, profughi o non profughi. E anche la legge istitutiva dello Yad va-Shem, che estende una “cittadinanza della memoria” a tutte le vittime della Shoah, andrebbe eliminata. E così anche le varie celebrazioni del calendario civile israeliano, Yom ha-Shoah, Yom ha-Zikaròn, Yom ha-Azmaut ecc. ecc. Non si farebbe allora prima a dire che si vuole contestare la stessa esistenza di uno Stato ebraico? Che si vuole negare che Israele possa essere, insieme, ebraico e democratico? Lo si può anche pensare (in tanti lo fanno), ma mi pare decisamente illusorio credere che la questione si possa risolvere con qualche piccolo ritocchino, tipo una modifica dell’inno. Bisogna essere consapevoli che, così facendo, si imboccherebbe una strada che porterebbe a conseguenze ben più vaste e profonde.
Aggiungo che la questione che pare avere dato avvio alla discussione, ossia il fatto che il Giudice arabo della Corte Suprema d’Israele, Salim Joubran, sia stato “colto in fallo” a non cantare l’inno in una cerimonia pubblica, mi pare decisamente stupida. Il Giudice si è rispettosamente alzato in piedi durante l’esecuzione dell’inno, al quale non ha minimamente mancato di rispetto, mentre hanno mancato di rispetto a lui e ai suoi sentimenti quelli che lo hanno rimproverato per questo. Molto bene ha risposto il Presidente Monti, nella conferenza stampa di lunedì, a chi gli chiedeva se, durante la finale del campionato europeo di calcio, avesse cantato l’inno: “l’ho cantato, ma non è una domanda da porre”. Bravo Monti. In un Paese civile non si giudica qualcuno dal fatto se canta o non canta, né glielo si chiede.
Comunque, se si vogliono cambiare le parole dell’inno, si faccia pure. Mi permetto solo di suggerire, ove mai ciò dovesse accadere, di preparare per tempo le più opportune risposte da dare alle nuove richieste che verranno, certamente, subito dopo.

Francesco Lucrezi, storico