ricchezza…

“Elle ha-devarìm ashèr dibbèr Moshè el kol Israel be-‘éver ha-Yardèn, ba-midbàr, ba-‘aravà, mol Suf, ben Pa’ràn u-ven Tòfel, we-Lavàn, wa-Chatzeròth we-Di Zahàv” – “Queste sono le parole che pronunciò Moshè a tutto Israele al di là del Giordano, nel deserto, nella steppa, di fronte al Canneto, fra Pa’ràn e Tòfel, e Lavàn e Chatzeròth e Di-Zahàv”.
Così traduce la quasi totalità dei traduttori. I nostri Maestri hanno notato che tutti questi nomi indicano località identificabili o nelle quali il popolo si è macchiato di gravi colpe, ma l’ultimo nome non risulta identificabile: il nome di Di-Zahàv non compare altro che in questo contesto. È quindi evidente che non si tratta qui di un semplice nome di località, ma di una connotazione che mira a trasmettere un messaggio. Quale?
Nel Talmùd è riportato un midràsh che dà una particolare spiegazione a questa voce: Di-Zahàv è inteso come se fosse “Dày zahàv”, “basta oro”. Si accenna qui al fatto che gli ebrei, all’uscita dall’Egitto, erano talmente ricchi da dire essi stessi “basta” alla loro ricchezza; essa era talmente sovrabbondante che di essa si servirono per la peggiore delle colpe, l’idolatria, sia fabbricando il vitello d’oro sia divinizzando la loro ricchezza, sì da anteporre il benessere che essa poteva procurare a qualunque altro valore.
Il Talmùd prosegue: “un leone non ruggisce davanti ad una greppia di fieno, ma davanti ad un carretto di carne; la mucca che non mangia non ha la forza di scalciare, ma se mangia e si ingrassa scalcia anche contro il padrone”. Così chi è totalmente indigente non recalcitra: solo chi ha ottenuto qualcosa si sente in diritto di esigere sempre di più.
Questo concetto, che la ribellione nasce solo da una condizione di – almeno relativo – benessere, non è un’invenzione del Talmùd, che è l’espressione del gruppo farisaico, sostenitore della classe popolare, né deriva da un’interpretazione più o meno arbitraria del pensiero della Torah: è una costante del pensiero tradizionale ebraico dalla Torah in poi. In altri punti del libro di Devarìm questo pensiero è espresso in forma più esplicita: “Che non ti accada che tu mangi e ti sazi, o ti costruisca buone case e vi abiti, e ti dimentichi del Signore tuo D.o”; fino a giungere alla lapidaria e sarcastica affermazione di Moshè nel suo cantico finale: “Ed Israele si ingrassa e scalcia …”.
Anche nella stessa Haftarah di questa settimana, in questa splendida, vibrante ed accorata invettiva che Isaia rivolge al popolo e soprattutto ai suoi capi, D.o afferma con forza: “E quando voi stendete le vostre mani (in preghiera) io distolgo i Miei occhi da voi; anche se moltiplicate le preghiere Io non ascolto: le vostre mani sono piene di tangenti”, là dove c’è una voluta confusione linguistica fra “damìm” (tangenti, guadagni illeciti) e “dam” (sangue).
È purtroppo cosa risaputa che ancora oggi siamo veramente fedeli al nostro Ebraismo solo quando qualche pericolo ci sovrasta, mentre quanto maggiore è la tranquillità e la prosperità tanto maggiormente sensibile è l’allontanamento dalle tradizioni.
Eppure una strada per uscire da questo vicolo cieco esiste, ed è D.o stesso che ce la indica per bocca del profeta: “Orsù, discutiamo, dice il Signore!”. Ecco la grande ricetta: essere così vicini a D.o da poter discutere con Lui. Noi oggi abbiamo perso la coscienza del colloquio con D.o, eppure non possiamo non renderci conto che solo il continuo contatto col sacro può distogliere le nostre menti dal pensare ed agire in maniera difforme dal volere divino. Solo così non avremo più mani piene di “damìm”, ma avremo “mishpàt” e “tzedaqà” (diritto e giustizia) che, assicura Isaia, redimeranno Israele ed i suoi dispersi da ogni male.

Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana