…fotoreporter
Interessante il dibattito apertosi sul Guardian e ripreso ieri dal Corriere della Sera sul ruolo del fotoreporter di fronte alla morte e alla violenza, soprattutto in quei casi in cui il fotoreporter avrebbe potuto, invece di scattare, aiutare chi si trovava in pericolo. Il ruolo del fotografo è quello di documentare, affermano alcuni, non di “diventare missionari”. Ma poi ci troviamo di fronte al caso di Kevin Carter che prende il premio Pulitzer nel 1994 per una foto scattata in Sudan durante la carestia, quella di una bimba morente e di un avvoltoio che ne attende la morte, ma in seguito si suicida stretto dai dubbi e dal rimorso. Sono evidentemente casi che non riguardano le guerre, dove invece i fotoreporter sono spesso vittime come coloro di cui documentano la sorte. Ma mi viene in mente che la quasi totalità delle foto che possediamo della Shoah, un apporto documentario ricchissimo, sono state scattate direttamente dai carnefici per gloriarsi della loro opera o documentarla per il Fuhrer. Essi sfuggivano, quindi, al dilemma tra aiutare e documentare, davano la morte e la fotografavano. Ma in altri casi, il dilemma esiste ed è drammatico: aiutare o fotografare? cogliere l’attimo della morte nella sua drammaticità o tenere la mano del morente per confortarlo, anche se non si può salvarlo? E documentare, per chi e per che cosa? per sé, per la giustizia, per l’opinione pubblica? Un dilemma che oggi la possibilità di fotografare ovunque con i cellulari dilata a dismisura, rendendolo sempre più drammatico perché finisce per riguardare gli esseri umani tutti, non solo i fotografi di professione: guardare per cogliere lo scatto, o guardare per interessarsi agli altri esseri umani?
Anna Foa, storica