Ricordare, partecipare
Credo di non essere stato il solo, tra i lettori di questo notiziario, di fronte allo spettacolo della inaugurazione delle Olimpiadi di Londra, a essermi sentito diviso tra contrastanti sentimenti. Da una parte, il desiderio di partecipare, come tutti, a quella che vorrebbe essere una grande festa dell’umanità unita, l’idea di un mondo accomunato nel nome degli ideali olimpici di fratellanza, lealtà, solidarietà. I volti sorridenti dei giovani atleti, provenienti dai cinque continenti, non potevano non suscitare una spontanea simpatia umana, rievocando antiche, ingenue speranze di un futuro migliore per l’intera famiglia umana. Allo stesso tempo, come dimenticare che quella grande festa era stata organizzata nel segno di un eloquente, tristissimo rifiuto, quello di rivolgere un pensiero di commemorazione a dei giovani atleti trucidati, quarant’anni fa, proprio nello scenario olimpico, sfregiato e insanguinato in nome di un odio cieco e bestiale? Un rifiuto odioso, ma non certo sorprendente, se buona parte dei Paesi membri del CIO continua a non volere Israele nelle varie competizioni internazionali, asiatiche e mediterranee. Israele non esiste, nella politica, nella geografia e nello sport: i suoi atleti, da vivi, non devono giocare, e, da morti, nono sono mai esistiti, e non vanno commemorati. Ed è ricominciata puntualissima, d’altronde, la disgustosa buffonata degli sportivi ‘islamici’ che rifiutano il contatto con i “nemici sionisti”: ieri gli judoka libanesi hanno chiesto un paravento che li separasse, durante l’allenamento, dai ripugnanti mostri – richiesta, ovviamente, immediatamente esaudita -, ed è stata immediatamente smentita, con sdegno, la dichiarazione di un responsabile iraniano, secondo cui i suoi atleti non rifiuterebbero il confronto. Certo, le Olimpiadi non sono soltanto questo, ma sono anche questo: meglio fare finta di niente, e godersi le gare in santa pace, invece di farsi il sangue acido, come sempre?
Di grande consolazione, in questo triste scenario, la manifestazione “Just one minute”, che, il giorno prima dell’inaugurazione, ha visto spontaneamente riuniti, in tante città del mondo, alla stessa ora, gruppi di liberi cittadini, spinti a incontrarsi unicamente dal desiderio di ricordare i nomi di quegli undici atleti a cui fu impedito di gareggiare e di vivere, e di dire alle loro famiglie e al loro Paese che non tutti li hanno dimenticati, che il mondo non è solo il regno dell’odio, della viltà, dell’indifferenza.
Una vera perla di umanità e nobiltà d’animo la lettera di compiacimento che è stata inviata al Presidente del CIO, Jacques Rogge – per la sua scelta di non commemorare le vittime del ’72 – da Jibril Rajoub, Presidente dell’Associazione calcistica palestinese, secondo il quale “lo sport deve fungere da ponte per favorire l’amore, i legami e l’amicizia fra i popoli, e non deve essere utilizzato come fattore di separazione e di disseminazione di razzismo fra i popoli”. Complimenti. Per l’ennesima volta, l’ANP ha dato eloquente dimostrazione della sua interpretazione dei concetti di ‘amore’ e ‘amicizia’. Almeno, un contributo alla chiarezza. Da parte, si badi, dei ‘moderati’ dell’ANP, non certo dei ‘duri’ di Hamas.
Comunque, c’è poco da fare, la richiesta di Israele è stata respinta, il CIO, e il mondo, hanno dimostrato, ancora una volta, da che parte stanno, quelli di “Just one minute”, senza dubbio, sono una minoranza. L’ANP ha ragione di essere soddisfatta. Anche se forse, sempre in nome dell’amore e dell’amicizia fra i popoli, avrebbero gradito una commemorazione – del tipo di quelle che vengono regolarmente celebrate in Palestina, per casi analoghi – dei terroristi autori della strage di Monaco. Ma, forse, sarebbe stato chiedere un po’ troppo.
Francesco Lucrezi, storico