Il tema di Anna Segre
Nel 1961 Hannah Arendt assisteva a Gerusalemme come inviata del New Yorker al processo Eichmann. Da quell’esperienza è nato il libro La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. Il brano proposto all’esame di stato è tratto dal capitolo La conferenza di Wannsee, ovvero Ponzio Pilato, il cui titolo riprende un’affermazione dello stesso Eichmann che si trova nel paragrafo immediatamente successivo a quello del tema: “Ma anche per un’altra ragione quella giornata fu indimenticabile per Eichmann. Benché egli avesse fatto del suo meglio per contribuire alla soluzione finale, fino ad allora aveva sempre nutrito qualche dubbio su ‘una soluzione così violenta e cruenta’. Ora questi dubbi furono fugati. ‘Qui, a questa conferenza, avevano parlato i personaggi più illustri, i papi del Terzo Reich. […] In quel momento mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa’”. Il testo della Arendt non è – e non è nato con lo scopo di essere – un libro di storia. E’ scritto a caldo, per commentare un processo sulle cui modalità di svolgimento l’autrice non sempre concorda pienamente (anche se in seguito chiarirà che non intendeva metterne in discussione la legittimità); in particolare non condivide l’intento di farne un processo alla Shoah anziché al singolo imputato. Per questo il testo si concentra ampiamente sulla personalità di Adolf Eichmann, sulla sua carriera, sul suo comportamento e sulle sue affermazioni nel corso del processo. A questo resoconto la Arendt affianca alcuni capitoli più specificamente storici, che risultano oggi piuttosto imprecisi, sia perché sono inevitabilmente datati, sia perché risentono dei pregiudizi dell’autrice, che per sottolineare maggiormente le colpe dei propri connazionali tedeschi finisce per essere troppo benevola con altri, per esempio con l’Italia fascista, tanto da lasciare intendere che le leggi razziali di fatto non siano state applicate quasi per nulla (interpretando la “discriminazione” come totale esenzione e attribuendola erroneamente a tutti gli ebrei con un parente iscritto al partito fascista), o che le deportazioni di ebrei dall’Italia verso Auschwitz siano iniziate solo nella primavera del 1944. Se non lo si legge come libro di storia e non si prendono per oro colato le opinioni dell’autrice il testo è molto interessante. Vale la pena citare anche un film del 1999 che dichiara di ispirarsi al libro della Arendt, Uno specialista – Ritratto di un criminale moderno, di Eyal Sivan, costruito utilizzando esclusivamente le riprese originali del processo Eichmann. Senza dubbio l’autore, concentrando in 123 minuti le centinaia di ore del processo, ha scelto i momenti più appropriati per confermare le tesi della Arendt. Comunque sia il film è profondamente inquietante: il criminale nazista responsabile della deportazione di milioni di ebrei ci appare davvero nella sua “banalità”, con un’aria da impiegato zelante ma un po’ grigio, ossequioso verso la corte, formale nelle risposte e nel modo di esprimersi. A personaggi come Eichmann, che hanno seguito l’”imperativo categorico del Terzo Reich”, cioè “agisci in una maniera che il Führer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe”, si possono contrapporre coloro che antepongono all’etica pubblica la propria etica individuale: personaggi della Torah (per esempio la figlia del Faraone che salva Mosè pur sapendo benissimo che si tratta di un bambino ebreo), del mito (Antigone), ma anche persone vissute nello stesso contesto storico di Eichmann e che lo hanno anche materialmente incontrato, come Giorgio Perlasca, la cui storia è raccontata da Enrico Deaglio in un libro non a caso intitolato La banalità del bene. A un certo punto si racconta del salvataggio di due bambini ebrei che Perlasca aveva nascosto nella sua macchina e che Eichmann, dopo un breve dialogo, lascia andare dichiarando che verrà il momento anche per loro. “Giorgio Perlasca e Adolf Eichmann si incontrarono per una manciata di minuti, in una mattina di ordinario macabro trasporto di ebrei ungheresi verso Auschwitz – scrive Deaglio – Fu un match breve, tra un calmo tenente colonnello delle SS contro un emozionato diplomatico spagnolo. Avevano più o meno la stessa età, uno aveva il potere e l’altro non l’aveva. Ma vinse quest’ultimo, che non era un diplomatico e neppure spagnolo. Di questa storia che è rimasta così impressa nella memoria di Giorgio Perlasca quello che mi piace di più è che ci fu una scelta. L’italiano vide i due ragazzi gemelli ed ebbe uno scatto pensando che si poteva far qualcosa per evitare che fossero uccisi. Il tenente colonnello tedesco forse non li vide neanche (me li immagino rannicchiati dentro la macchina) e, con un gesto della mano, li lasciò vivere. Per lui erano due numeri, non due persone. Un fatto statistico”. Il problema del rapporto tra etica individuale ed etica pubblica è molto interessante, complesso (ovviamente la questione non è così semplice come gli esempi di Eichmann e Perlasca farebbero supporre) e, a mio parere, potrebbe essere molto adatto alle riflessioni di un giovane che affronta l’esame di stato. In effetti nella mia scuola è stato proposto come saggio breve storico per la simulazione prima dell’esame. Il tema proposto dal ministero, invece, non parlava di questo, e non chiedeva neanche di riflettere su Eichmann, sul libro di Hannah Arendt, e neppure sulla conferenza di Wannsee, ma di “soffermarsi” (qualunque cosa questa parola significhi) sulla Shoah nel suo complesso. Un’impresa che personalmente non azzarderei mai senza testi a disposizione, tanto più che la formulazione del titolo suggeriva che il candidato avrebbe dovuto discutere se e in che misura lo sterminio degli ebrei fosse stato pianificato fin dall’inizio, questione ancora dibattuta tra gli storici e su cui non mi sentirei competente a esprimere un’opinione personale. Insomma, se fossi stata una studentessa probabilmente avrei scelto un’altra traccia.
Pagine Ebraiche, agosto 2012