Davar Acher – Senza se e senza ma
Devo confessarlo, sono anch’io nel mio piccolo uno di quelli “per Israele, senza se e senza ma”, che sono stati autorevolmente ripresi su questo sito qualche giorno fa. Non sorvegliamo abbastanza le politiche di Israele, ci è stato spiegato, non discutiamo a sufficienza, per esempio, le politiche di reclutamento dell’esercito, il rapporto fra governo, maggioranza parlamentare e corte suprema, non siamo abbastanza acuti e critici, come si dovrebbe. Giusto: non si è mai abbastanza critici, nella vita. Ma dato che questi limiti vengono dall’amore per Israele e dato anche che Moked si è fortunatamente caratterizzato come un sito pluralista, che accoglie le posizioni assai diverse che circolano nel mondo ebraico, vorrei chiarire come interpreto io questa posizione che condivido, anche se in prima battuta non c’entro. Le persone riprese per non voler associare congiunzioni al loro amore di Israele erano infatti gli illustri presidenti delle due maggiori comunità italiane, che non hanno certamente bisogno di difese d’ufficio, ma chiarire è sempre utile, anche se magari si dicono cose banali, come farò io oggi.
“Senza se e senza ma”, nel bizzarro gergo della politica, significa incondizionatamente: se la pensi così, non appoggi Israele solo se fa la politica che ti piace (per esempio la trattativa con i palestinesi alle loro condizioni) e ti riservi di non appoggiarlo più se fa altre scelte. Vuol dire anche senza riserve mentali: chi ama Israele “senza se e senza ma” non si tura il naso perché Israele si deve difendere e magari farlo anche con la barriera di sicurezza, entrando con le armi a Gaza, uccidendo i terroristi prima che loro uccidano noi. E non ritira il suo appoggio perché in Israele vi sono anche gruppi di charedim che godono di privilegi economici e militari certamente discutibili (e in parte a loro volta si guardano bene dall’appoggiare Israele con le congiunzioni o senza). Discute questa situazione, critica quel che non gli piace, ma esprime innanzitutto il suo appoggio.
La prima ragione di questo atteggiamento è semplice: chiamiamola fiducia. Se un amico ha fiducia in me, in una situazione difficile, mi appoggia per l’appunto “senza se e senza ma”: vede che sono soggetto a fare degli errori, ma non passa il tempo a rimproverarmeli: pensa che fondamentalmente so quello che faccio e che se nelle difficoltà non sono proprio perfetto e inappuntabile, come tutti gli esseri umani – be’, rimedierò. Prima di tutto è dalla mia parte. Nelle difficoltà reali aiuta certamente di più una solidarietà forte che la penna rossa e blu di chi pretende di saperne di più. Così chi ama davvero Israele deve dargli credito, con una fiducia non astratta o fideista, ma basata sull’esperienza: il sionismo è stata un’impresa di straordinario successo umano, economico e politico. A differenza di quasi tutti gli altri movimenti di massa degli ultimi due secoli, non ha prodotto dittature, culti della personalità, progetti di distruzione; la democrazia è intrinseca al suo DNA e prima ancora a quello della cultura ebraica; la pace, che purtroppo è mancata spesso, fa parte dei suoi obiettivi continuamente ribaditi. La fiducia per Israele è meritata e dev’essere integrale, non misurata col contagocce.
Seconda ragione: Israele per noi non è solo un amico, è l’oggetto di un’appartenenza essenziale per chi è e vuol essere parte del popolo ebraico. La costruzione di uno stato nel territorio della nostra patria è la grande impresa degli ultimi secoli della storia ebraica, il destino condiviso di generazioni. Non si può essere davvero ebrei oggi senza condividere questa appartenenza, come purtroppo non capiscono alcuni estremisti sia charedim che di sinistra – paradossalmente compiendo lo stesso errore di mettersi fuori e sopra dal destino comune. Di qui per tutti noi la necessità di applicare a Israele il vecchio e saggio motto inglese “wrong or right, my country”. Che sbagli o che abbia ragione, qual che lo Stato ebraico fa mi coinvolge essenzialmente, è comunque il mio destino, cui non posso non aderire. Devo cercare di contribuire a migliorare questo grande progetto collettivo, ma non posso uscirne o contrattarlo.
La terza ragione è proprio amore, nel senso che la Arendt attribuì ad Agostino: volo ut sis, se ti amo voglio che tu sia proprio quel che sei. Israele è uno straordinario miracolo, nei cent’anni o poco più trascorsi dai primi nuclei dell’insediamento ebraico moderno ha saputo non solo difendersi e sopravvivere, ma è riuscito a cambiare molte volte, ad adattarsi alla realtà, creando nuove strutture sociali ed economiche ad ogni generazione. È una realtà complessa, che comprende realtà molto differenti e in tensione fra loro. Difficile credere di poterlo amare senza accettare la complessità e seguire la sua evoluzione, o addirittura pretendendo di dettare da lontano la formula giusta. Senza se e senza ma vuol dire anche accettare i lati che non ci piacciono, dare spazio al cambiamento.
La quarta ragione è gratitudine. Tutti noi dalla Diaspora sappiamo che l’antisemitismo non è finito, che Israele è l’assicurazione sulla vita nostra e dei nostri figli. Sappiamo anche che mantenere in piedi questa assicurazione costa sacrifici, sangue, fatica, costi economici, scelte difficili, che noi non paghiamo se non in minima parte, mentre lo fa chi in Israele vive, lavora, fa il servizio militare – e vota. Questa asimmetria è un buon motivo per fare molta attenzione a esprimere critiche, riserve, esortazioni: è troppo facile predicare da qui questa o quella politica, mentre non ne sconteremmo noi le conseguenze, almeno non subito e direttamente. È troppo facile chieder coraggio, dichiarare essenziali sfide che rischiano di turbare l’equilibrio del sistema politico, predicare riforme standosene dall’altra parte del Mediterraneo.
Insomma, noi “senza se e senza ma” ci limitiamo ad appoggiare le decisioni che la democrazia israeliana produce nei suoi organi democratici. Abbiamo accettato a suo tempo scelte molto discusse in Israele e a posteriori ancora molto dubbie come Oslo e il disimpegno da Gaza. Appoggiamo oggi il difficile compito del governo israeliano che deve condurre il paese fra minaccia iraniana, tiepidezza dell’amministrazione americana, subbuglio arabo, indisponibilità palestinese, antipatia di molti governi europei. Dovremmo entrare nel merito della politica israeliana? Sostenere una parte contro l’altra, magari la piccola ma fragorosa minoranza del “fronte della pace” contro il governo legittimo del Paese? Non mi sembra che ci sia bisogno di altre voci che combattono le politiche israeliane, che chiedono una resa incondizionata alle pretese dell’Autorità Palestinese (la chiamano “pace”) e magari vorrebbero decidere meglio dell’elettorato interno chi merita davvero di governare Israele.
È prezioso invece che qualcuno si sforzi di mostrare all’opinione pubblica le ragioni di Israele, di far presente il lato meno romantico e più pericoloso del mondo arabo e dell’islamismo dentro e fuori dal territorio di Israele, non foss’altro perché un lettore di “autorevoli” giornali come “Repubblica”, “Le monde” o il “New York Times” molto probabilmente non ne ha mai sentito parlare e conosce solo le interessate caricature degli avversari politici. Essere per Israele senza se e senza ma serve dunque anche al contraddittorio che nel caso di Israele certamente è minoritario in di tutto il sistema informativo occidentale – e speso anche nel mondo ebraico.
Infine, a questo proposito, mi sento di fare una sommessa domanda. Scontata e perfino proverbiale la litigiosità nel mondo ebraico, per cui anche la semplice dichiarazione di appoggio per lo Stato di Israele può essere criticata, perché prendersela anche con i pochi amici che abbiamo fuori dal ristretto ambiente ebraico? Perché, invece di nutrire gratitudine per chi, senza essere ebreo, gestisce un sito, scrive libri, fa inchieste, produce articoli per Israele, lo si rimprovera di non essere politicamente corretto, si isolano delle frasi più o meno infelici per usarle contro di lui ignorandone il contesto, insomma spesso e volentieri si fa il processo ai Meotti, ai Pezzana, agli Allam, ai Battista, mentre si evita di contestare quelli che contro Israele hanno un’antipatia per così dire ontologica, che sono tanti di più e più potenti? Sarà una domanda ingenua e impertinente, ma va fatta a tutti quelli che appoggiano Israele con i se e con i ma e magari con quel “tough love”, l’”amore duro” che è diventato lo slogan del post-sionismo.
E va fatta anche a quelli che da Israele ci guardano e ci giudicano e meritano naturalmente davvero rispetto per semplice il fatto di farlo da lì dove il gioco vero si svolge; ma mentre predicano a noi tolleranza e pluralismo, mostrano fastidio per l’assenza di congiunzioni avversative, concessive e ipotetiche nel nostro amore. Non c’è posto anche per noi – grammaticalmente paratattici, politicamente sionisti – all’interno del pluralismo ebraico? Oppure c’è spazio solo per la distinzione fra “amore con i se” e “amore con i qualora”, “amore con i ma” e “amore con i però”, magari con l’aggiunta di “sebbene”, “tuttavia”, “benché”, “ancorché”, “nonostante”? Detto fuori dai denti, si può discutere solo fra coloro che premettono di dissentire dalle politiche di Netanyahu? Devo confessare che considero questa forma di pluralismo molto insoddisfacente. Trovo che sia una fortuna per l’ebraismo italiano che sui suoi media ci sia posto anche per chi si schiera con la maggioranza dell’elettorato israeliano e sono grato per questo. Sarà ingenuità o allergia alle congiunzioni avversative e ipotetiche, non so. O amore vero.
Ugo Volli – twitter @UgoVolli